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Beethoven, composizioni giovanili senza numero d’opera

note per il CD Stradivarius STR 33362


All’industria del disco è cara l’idea dell’integrale. E’ soprattutto un modo di interessare l’acquirente ma va detto che il disco, sollecitato dalla curiosità del mercato, ha realizzato operazioni che la sala da concerto ben difficilmente avrebbe accolto. La consuetudine, le esigenze dello spettacolo, la necessità di compilare i programmi con opere di richiamo, ed anche le esigenze pratiche dei concertisti che non possono studiare e mettere in repertorio una nuova opera ogni giorno, hanno di fatto selezionato le musiche che si eseguono in sala da concerto. Il disco si è occupato anche del resto. Per fortuna dell’istituto stesso della Curiosità qualcosa gli è sfuggito.


Il programma di questo CD raccoglie tutte le composizioni senza numero d’opera per quartetto d’archi di Ludwig van Beethoven. Si tratta di composizioni giovanili, scritte a partire dal 1794, tutte precedenti l’Op.18 (1801), l’esordio ufficiale nel genere del quartetto d’archi, tranne la trascrizione della Sonata per pianoforte Op.14 n.1 che è di un anno successiva. Composizioni giovanili, dicevamo, ma non precoci se si considera che Beethoven al tempo della pubblicazione dell’Op.18 aveva trentuno anni, l’età a cui Schubert morì. Come dire che alla stessa età l’uno esordiva nell’arte e l’altro già concludeva la propria parabola terrena.

Con l’eccezione della trascrizione della Sonata Op.14 n.1, che, soprattutto in passato, veniva un poco eseguita, nessuna di queste composizioni è mai stata inclusa in un’integrale discografica beethoveniana dei quartetti né viene mai eseguita in pubblico. Eppure i motivi di interesse non mancherebbero.


Preludio e Fuga all’ottava in fa maggiore H.30

Preludio e Fuga alla decima in do maggiore H.31

Preludio in re minore (frammento)

Fuga H.36 (trascrizione per quartetto d’archi dalla Fuga dell’Ouvertüre del Solomon di Händel)

Minuetto [senza Trio] in la bemolle maggiore H.33

A Bonn, sua città natale, Beethoven aveva iniziato la sua educazione musicale sotto la guida di Christian Gottlob Neefe. Dopo un fallito tentativo del padre di lanciarlo come fanciullo prodigio, fin dal 1784 Beethoven era stato a servizio dell’arcivescovo Maximilian Franz come organista e già nel 1787 aveva intrapreso un viaggio a Vienna per perfezionarsi con qualche illustre maestro. Il soggiorno dovette essere presto interrotto per la morte della madre e Beethoven poté tornare a Vienna, dove si trasferì definitivamente, solo nel 1792.

A Vienna, Beethoven ricevette un insegnamento piuttosto distratto da Haydn che riconobbe le sue qualità e cercò anche - senza troppa pena - di procurargli protezione. Il loro rapporto si incrinò a causa certamente del carattere poco accomodante dell’allievo e forse anche per una certa apprensione del maestro nel valutarne le capacità creative. Beethoven dedicò ad Haydn la sua prima pubblicazione, i Trii con pianoforte Op.1 (1795), un atto simbolico e dovuto di omaggio al più illustre musicista della sua epoca, ma non gradì le critiche che il dedicatario rivolse al terzo Trio e visse il rapporto con il maestro in maniera sempre più antagonistica. Studiò invece con maggiore assiduità sotto la guida dell’illustre contrappuntista Johann Georg Albrechtsberger. A questo periodo di studio risalgono i Preludi e Fuga H.30-31, il frammento conclusivo di un Preludio in re minore e l’adattamento per quartetto d’archi della Fuga dall’Ouvertüre del Solomon di Händel che, col Minuetto [senza Trio] in La bemolle maggiore H.33, sono le prime composizioni destinate all’organico del quartetto d’archi. Furono composte nel 1794 da Beethoven ventiquattrenne.

Beethoven ammirava Händel come il più grande compositore, come riferisce il fabbricante londinese di arpe Johann Andreas Stumpff, e copiò, adattandola per quartetto d’archi, la Fuga dall’Ouvertüre del Solomon, per studiarla, secondo un costume sempre praticato dai compositori, anche i più grandi. Anzi, Stumpff riferisce che, alla sua considerazione che anche Mozart aveva contribuito ad accrescere la fama di Händel, con la sua orchestrazione del Messiah, Beethoven rispose acido che sarebbe sopravvissuto comunque.

Il Minuetto [senza Trio] in La bemolle, di cui esiste anche una riduzione pianistica, è una piccola composizione non priva di un certo impegno costruttivo. Non è più che un esercizio ma a me pare realizzato senza impaccio e, pur non contenendo ricercatezze, senza banalità.

I due Preludi e Fuga sono esercizi di stile, studi su un modello formale del passato. Sul manoscritto sono riconoscibili le correzioni di Albrechtsberger, correzioni accolte in questa esecuzione. Sia nel caso dei Preludi, sia nel caso del Minuetto, la redazione pervenutaci manca di ogni prescrizione per gli esecutori, priva com’è di legature e di indicazioni agogiche e di dinamica.

Nel complesso il Preludio e Fuga H.31 appare più compatto, meglio condotto e complessivamente più coerente e caratterizzato. La Fuga ha la particolarità di un doppio controsoggetto. Il Preludio e Fuga H.30 tenta una maggiore varietà di situazioni espressive. Il percorso è però tortuoso e un poco ripetitivo, tanto che il risultato complessivo appare più disomogeneo e meno proporzionato. Nel Preludio compare un abbozzo di variazione nel contrappunto dell’idea principale.

Completa questa incisione l’esecuzione del frammento conclusivo di un Preludio in re minore, certamente assimilabile ai precedenti. Non si è invece ritenuto di includere la trascrizione di due frammenti dalla Fuga in si minore dal I Libro del Clavicembalo ben temperato di Bach che sono una banale trascrittura di due momenti in cui la fuga - a cinque voci - muove a quattro parti.

Non vi è nulla di profetico in queste opere, certo modeste, nulla che possa far presagire le Fughe grandiose della maturità; esse sono però la testimonianza di un interesse già presente verso le antiche forme contrappuntistiche, la premessa di esiti prodigiosi non nati dal nulla.

Le relazioni tra gli esordi e la maturità beethoveniana andrebbero meglio indagate. L’idea che la fortunata distinzione della produzione beethoveniana in tre periodi tende a suggerire è quasi quella di tre diversi compositori, il primo dotato, il secondo grandissimo, l’ultimo geniale. Il vero motivo di interesse di quella distinzione credo risieda non nella capacità di catalogazione quanto nel rilievo di ciò che la nega, a tutto vantaggio della ricostruzione di una figura unitaria.

Una considerazione da cui partire potrebbe essere che il materiale musicale del primo periodo è in fondo il medesimo usato nelle ultime, addirittura profetiche composizioni. Intendo il materiale vero e proprio, i mattoni per costruire, naturalmente non gli esiti espressivi.

Beethoven usa sempre un materiale piuttosto neutro, semplice da descrivere a parole perché sempre legato alle strutture fondamentali della materia. A voler descrivere i temi del Concerto per violino in fondo si dovrebbe dire che sono costruiti semplicemente con scale ed arpeggi.

Paolo Borciani, durante una lezione dei Corsi Internazionali di Gazzada (Varese), notava come la cellula di quattro note che apre il Trio in do minore Op.9 compaia rivoltata quasi trent’anni più tardi come soggetto della meravigliosa fuga che apre il Quartetto in do diesis minore Op.131 e, aggiungo io, identica quanto a struttura melodica - un semitono, un intervallo più ampio, un altro semitono - come soggetto della Große Fuge Op.133 e come tema iniziale del Quartetto in La maggiore Op.132.

Questo “tema”, quasi una geometria più che un’idea musicale, è chiamato “tema-sfinge” dal Mila che ha raccontato la straordinaria pantomima messa in scena da battuta 609 della Große Fuge Op.133. Dopo due tentativi andati a vuoto, che ripiegano su di sé, il primo violino conquista finalmente un acutissimo si bemolle che completa il nome di Bach pronunciato per moto contrario secondo la notazione letterale tedesca (B=si bemolle, A=la, C=do, H=si bequadro). Una rappresentazione simbolica, segreta. Quel materiale musicale, quella geometria, sotto forma di terzo soggetto della Fuga incompiuta dell’Arte della Fuga aveva accompagnato il commiato dalla vita di Johann Sebastian Bach. Non paia sacrilego, ma anche nel Preludio H.30 c’è qualcosa di quel materiale, e forse non è casuale, ragionando col senno di poi, che l’organico prescelto per questi studi sia stato proprio il quartetto d’archi.


Quartetto in fa maggiore H.34

trascrizione della Sonata per pianoforte in mi maggiore Op. 14 n.1

Nel 1801 Beethoven pubblicò i sei quartetti dell‘Op.18, un esordio piuttosto prudente e tradizionalista. La realizzazione della raccolta fu lunga e laboriosa: gli studi per l’Op.18 (1798-800) si intrecciano con la stesura dei Trii per archi Op.9 (1796-98), che dell’Op.18 rappresentano in certo modo la prova generale, e della Sonata per pianoforte Op.14 n.1 (1798-99), in seguito trascritta per quartetto.

Alcuni commentatori suggeriscono l’ipotesi che il materiale musicale della Sonata, i cui primi abbozzi sembrano destinati più ad un organico strumentale che non al pianoforte, sia in origine servito ad uno studio dei problemi propri della scrittura quartettistica, ciò che ne avrebbe reso naturale la successiva trascrizione (1801-2). Come dire che Beethoven scrisse un quartetto per studio, non lo pubblicò come quartetto ma lo ridusse a sonata per pianoforte e pubblicò questa nel 1799. In seguito “finse” di trascrivere la sonata e pubblicò anche il quartetto nel 1802.

Questa ipotesi, che non ha riscontri, si spiegherebbe con la necessità di vendere un pezzo ad un editore. Pubblicare un quartetto - o meglio, una raccolta di quartetti, ché un quartetto singolo non sarebbe nemmeno stato preso in considerazione - era all’epoca un passo impegnativo. Il quartetto d’archi era il luogo dove ad un autore si chiedeva di provare in maniera inequivocabile la propria arte. Anche Mozart fece fatica a scrivere la sua raccolta di sei quartetti. Ci lavorò a lungo e la dedicò ad Haydn. La sonata/quartetto di Beethoven non poteva nascere per affrontare un simile impegno: è in tre soli tempi, e non si dà il caso di un quartetto che non sia in quattro tempi, ed è sola, non inserita in una raccolta. Da che l’Op.18 era stata pubblicata le cose potevano però essere considerate diversamente, il passo era già stato compiuto.

Il tono di una lettera all’editore Breitkopf & Härtel, nella quale Beethoven critica la mania di trascrivere per strumenti ad arco opere concepite per il pianoforte, può alimentare qualche dubbio:

“Io insisto nel dire che solo Mozart potrebbe trascrivere se stesso e così Haydn, e senza l’intenzione di paragonarmi a questi due grandi uomini mi sento in diritto di fare altrettanto con le mie sonate (...). Sono sicuro che nessun altro potrebbe farlo così facilmente e così bene“.

Beethoven non trascrisse mai più dal pianoforte al quartetto d’archi.

L’atto della trascrizione, se è l’autore a realizzarla, è pur sempre un atto dove si esercita la sua volontà creativa e vale la pena di darne conto. Quale che sia l’originale o la trascrizione, d’ora in poi faremo mostra di credere a Beethoven e considereremo trascritto il quartetto.

La trascrizione sposta la tonalità da mi a fa maggiore, non per una necessità timbrica o espressiva ma semplicemente perché viola e cello possano usare la quarta corda, la più grave, come dominante della tonalità - in mi maggiore la dominante è si, una nota fuori dall’estensione degli strumenti. Ciò provoca un cambiamento, si potrebbe dire, della luminosità generale: se il pianoforte in mi maggiore aveva una sua grazia acerba questa viene ammorbidita dalla tonalità di fa maggiore. L’effetto è, a parer mio, di una maggiore caratterizzazione espressiva. Il colore meno luminescente della tonalità di fa contrasta con l’eleganza arguta del materiale musicale e meglio ne svela le velature espressive. Il particolare ha maggiore rilevanza se si considera l’uniformità dell’impianto armonico: i tre movimenti sono tutti nella medesima tonalità.

La scrittura di alcuni passi virtuosistici al primo violino (lo sviluppo del primo movimento, la sezione centrale dell’Allegro conclusivo) viene adattata allo strumento. Per il resto non cambia nulla, né le indicazioni agogiche né dinamiche, non ci sono tagli né aggiunte, nessuna concessione ad effetti timbrici e ad impasti possibili al nuovo organico.

Non esiste in nessuna delle due versioni una ricerca autentica sulla scrittura del suono: il pianoforte non muove le masse di materia, che più hanno a che fare con il rumore che non con il canto, che muoverà di lì a poco. La trascrizione non aggiunge colori né contrappunto: si limita a dirimere con diligenza la spartizione delle note. Un compito non complesso: è impressionante fare la conta delle note in verticale nella versione pianistica, che sono quasi sempre quattro come fossero preparate per essere trascritte, e delle imitazioni - ad esempio, l’esordio del primo movimento - che altrettanto sono quattro, pronte per mettere in fila indiana gli strumenti.

Il materiale musicale presenta interessanti analogie: l’esordio alla dominante dell’ultimo movimento, sottinteso anche dall’esordio del primo violino nel primo movimento, la costruzione tutta appoggiature del secondo tema del primo movimento così come del Minuetto e del Trio (Maggiore) ed anche della seconda strofa dell’Allegro conclusivo. Aggiunte alla identità armonica dei movimenti, di cui abbiamo detto, accrescono l’impressione di uniformità di una strana opera che elude nel suo impianto formale la tendenza naturale ad un cuore espressivo e che infatti manca di un tempo lento centrale.

Beethoven aveva scritto un quartetto in tre soli movimenti, alla fine della sua vita: l’Op.135, il suo ultimo quartetto. Non è noto quale dei due movimenti centrali sia stato aggiunto in seguito, se il Vivace o il meraviglioso Lento assai, cantante e tranquillo. Per il fatto che quello che ora è il quarto movimento comincia con un’introduzione lenta (Grave ma non troppo tratto) pare lecito immaginare che il tempo aggiunto sia proprio il tempo lento.

In questa strada pericolosa che abbiamo intrapreso del tendere relazioni tra gli esordi e la maturità di Beethoven, questo sarebbe un elemento di corrispondenza che potrebbe portarci molto, forse troppo, lontano. Gli altri, a differenza di questo, sono reali e di questi ci accontenteremo: anche l’opera 135 è in fa maggiore, come la trascrizione della Sonata Op.14 n.1, come il Preludio e Fuga H.30; anche l’Op.135 esordisce alla dominante, un artificio caro ad Haydn; anche nell’Op.135 compare quella strana struttura geometrica di cui abbiamo parlato prima, moltiplicata in una specie di serpentone di note, così come nell’Op.14 n.1 il primo tema ne riproduce il modello geometrico e così anche la seconda strofa dell’ultimo movimento.


Quartetto in fa maggiore H.32

prima versione del Quartetto Op.18 n.1

Il Quartetto in fa maggiore H.32 non è altro che la prima versione del Quartetto Op.18 n.1. Non si conosce con certezza l’ordine di composizione dei sei Quartetti Op.18; si sa però che i primi tre furono ripresi e rimaneggiati prima di essere pubblicati. Nel 1799 Beethoven terminò il suo secondo quartetto, così come si legge sulla parte manoscritta di primo violino, e lo dedicò all’amico Karl Amenda. In seguito lo riscrisse per intero, senza alterarne il materiale melodico ma intervenendo pesantemente sulla scrittura. Le modifiche riguardano la fisionomia del materiale musicale: diversa la strumentazione, più chiare e più efficaci le indicazioni espressive, migliore il tessuto connettivo tra le voci.

Le due versioni sono entrambe opere compiute, licenziate dall’autore. Il fatto che ci siano pervenute offre un’occasione unica, ben altrimenti significativa che non l’analisi di schizzi e altro materiale preparatorio. Quasi un viaggio nella immaginazione creativa dell’Autore, un’intrusione nel suo laboratorio.

Non è significativo solo il fatto di possedere due versioni definitive della stessa opera, è il tipo di intervento cui viene sottoposto il Quartetto H.32 a costituire il più profondo motivo di interesse. La versione definitiva non solo è migliore, nel senso che è più riuscita e più perfezionata, soprattutto è più sviluppata: il materiale musicale, lo stesso materiale, ha enormemente accresciuto la rete di relazioni che lo anima.

Il secondo movimento, Adagio, diventa Adagio affettuoso ed appassionato. La versione definitiva suona nel complesso più bruna e compatta grazie ad una rivoluzione poco appariscente delle voci interne. Per il resto, cambiano alcuni percorsi armonici, un po’ vuoti, scompaiono un trillo e alcune indicazioni dinamiche; l’arabesco conclusivo del primo violino non è, nella prima versione, ancora così lieve.

Il terzo e quarto movimento, Allegro e Allegretto, vengono accelerati nel passo: diventano Allegro molto e Allegro. Soprattutto nel secondo caso è la conseguenza di una maggiore scorrevolezza del materiale musicale, alleggerito da molte accentuazioni ritmiche e semplificato in alcune figurette di abbellimento. Oltre a questo, nel quarto movimento le sezioni fugate vengono modificate nell’andamento armonico e accorciate, e riscritta la coda.

Il movimento che subisce gli interventi più rilevanti è però il primo. Vale la pena di tentare un’analisi comparativa di alcuni passi. Per chiarire: quando non è esplicito, parleremo al presente della versione definitiva e all’imperfetto della prima versione.

Il quartetto si apre con un inciso dal ritmo molto caratteristico e riconoscibile, eseguito insieme da tutti gli strumenti e subito ripetuto con diverso orientamento. Tutta l’area del primo tema subisce piccoli perfezionamenti nella scrittura. La sua conclusione è segnalata da tre note staccate, in apparenza solo una formula per concludere.

La prima differenza significativa si incontra nelle scale di semicrome balzate che portano al secondo tema: nella versione definitiva coinvolgono alla fine tutti gli strumenti mentre nella prima versione erano appannaggio del solo primo violino. L’effetto è di maggiore irruenza e vitalità.

Una serie di sincopi del primo violino si trasforma nel secondo tema, costituito da una catenella di crome ribattute legate a due a due in anacrusi, che disegnano l’ossatura di semplici accordi - senza una vera struttura melodica, quindi - e che si arrestano su di una appoggiatura. Dopo una brevissima pausa la catenella riprende ad un altro strumento, ancora si arresta su un’appoggiatura per poi essere di nuovo ripresa fino a che tutti gli strumenti non siano intervenuti. La semplice trasformazione della pausa che segue la risoluzione dell’appoggiatura in una nota, quasi un gradino da scendere perché il moto del secondo tema possa riprendere, rende più naturale e continuo l’andamento ritmico della versione definitiva.

Cambia anche l’ordine degli interventi. L’ultima posizione spetta ora al secondo violino che non riesce a concludere perché la viola gli ruba la parola. L’irruzione della viola sortisce un effetto benefico, rompe la successione un po’ monotona degli strumenti, ma in fondo serve solo a far tornare i conti. Il secondo violino suona ora la parte che era del cello ma non può scendere al fa diesis che è fuori dalla sua estensione. E’ necessario fargli subentrare la viola; non subito, però, per conservare almeno in parte il senso di una frase che passa per tutte le voci. Una pezza, ma ben riuscita [non, come si dice a Venezia: pezo el tacòn che il buso!]. Va aggiunto, perché il particolare non è di poco conto e perché rappresenta una costante delle modifiche all’intero quartetto, che il percorso armonico del secondo tema viene modificato.

L’episodio seguente si ripete due volte, prima in minore e poi in maggiore con diversa orchestrazione. Nella versione definitiva viene contratto. Sopravvive solo il maggiore, che usa elementi di entrambe le ripetizioni. Il primo violino viene abbassato di un’ottava e dalla sua nota più alta, un si bemolle, scivola su quartine balzate di semicrome che disegnano un moto circolare, ripetuto quattro volte prima di un’ondata più grossa che, come nella transizione al secondo tema, coinvolge tutti gli strumenti e conclude su una rassicurante cadenza. Nella prima versione il primo violino era lasciato solo fino alla conclusione del passo. La versione definitiva è ben più vitale pur se più parsimoniosa di mezzi - l’abbassamento d’ottava e la generale stringatezza - oltre che coerente col modello della transizione al secondo tema.

La cadenza è seguita da una frase costruita con coppie di ottavi legati a due a due su di un’armonia che muove in doppio movimento. Si tratta di una derivazione dal secondo tema con la differenza che ad essere in anacrusi non è più la legatura bensì lo spostamento di armonia. Questo elemento, in sostanza un accordo di settima di dominante, viene ripetuto due volte con una piccola differenza nell’orchestrazione. Nella versione definitiva la prima proposta è abbassata di un’ottava, ciò che rende più interessante la ripetizione e disegna tra le due semifrasi un’unica linea interrogativa. Seguono tre accordi sordi, della durata di una intera misura ognuno, su un’armonia sempre più dissonante, che d’improvviso si mutano in quel motto di tre note già incontrato alla fine del primo tema. Un pedale del cello costruito sull’inciso che apre il quartetto e altre scale del primo violino portano ancora una volta a pronuciare quel motto, che chiude l’esposizione.

Lo sviluppo si apre in la maggiore ancora con una scala, verrebbe da dire, a rampe del primo violino che si arresta su quel ritmo di tre semiminime ormai ben noto. Nella versione definitiva l’aggiunta di una semplice legatura sottolinea e facilita lo spostamento cromatico a si bemolle. Il primo violino risponde, nella versione definitiva, alle due interrogazioni del secondo, riprese letteralmente dalla quinta e sesta battuta del primo tema, prolungandone così il senso di sospensione e occupando quelle che erano due pause.

L’episodio contrappuntistico dello sviluppo viene reso meno scontato nella struttura. Nella prima versione gli strumenti entrano a canone col frammento iniziale del primo tema. Dopo le quattro battute necessarie alle entrate, gli strumenti coagulano su di una settima, una specie di grumo di suono costretto a rimanere fermo per due battute. Lo stesso modello di sei battute viene ripetuto una seconda volta in altra direzione. Solo una terza ripetizione è prolungata da un ulteriore grumo di due battute che, accresciuta oltre misura la tensione, genera un episodio che seda per un momento la tensione prima della stretta finale dello sviluppo. In questo episodio il primo violino, poi il secondo, la viola e il cello, discendono a gradini l’armonia continuando a ripetere l’inciso iniziale. Nella versione definitiva la costruzione generale rimane la stessa ma cambia completamente il percorso armonico, reso assai più significativo fin dalle interrogazioni del secondo violino, e sono aggiunte ancora due battute alla terza ripetizione. Il cambiamento più significativo avviene nella struttura delle imitazioni che sono contratte nello spazio - la terza e quarta entrata sono quasi sovrapposte. Ciò permette di guadagnare una battuta dove trova posto, prima del grumo/settima, quel motto di tre semiminime staccate che, in questo modo, viene ad essere unito al frammento iniziale. Lo stesso motto, al secondo violino in ottava col cello, conclude le due frasi in cui è articolata la discesa a gradini di cui abbiamo parlato.

Già più volte quel motto, ricordiamolo, era stato la pietra miliare della struttura: aveva chiuso il primo tema, concluso l’episodio di accordi che avvia la coda dell’esposizione, concluso l’esposizione stessa, provocato il cambiamento di rotta che scatenerà lo sviluppo. E non è finita: più avanti, raddoppiato su una scala ascendente e ripetuto due volte, concluderà la ripresa e introdurrà la coda. Il fatto che sia ripreso proprio su una scala, e che così i due elementi siano integrati, non è senza significato. Le scale di quartine veloci sono il materiale con cui sono costruiti tutti gli elementi di collegamento: introducono il secondo tema e ne esauriscono la tensione, concludono l’esposizione, avviano e concludono lo sviluppo. Questo procedimento di derivazione del materiale dal materiale aveva già generato, per accrescimento, gli accordi sordi che impongono una stasi prima della conclusione dell’esposizione: sempre tre accordi, il valore di ognuno triplicato.

Nella versione definitiva questo procedimento di derivazione è ancora più evidente e addirittura coinvolge gli elementi non tematici, strada peraltro già aperta, e quindi coerentemente proseguita, dall’uso del frammento iniziale come fioritura dei pedali.

Ancora scale si rincorrono a concludere lo sviluppo, prima al primo violino e in seguito a viola e cello insieme; nella versione definitiva il posto della viola viene preso dal secondo violino, ciò che consente una maggiore profondità prospettica del suono e quindi maggior respiro, leggibilità ed energia al passo. Gli sforzati che si oppongono alle scale sono spostati in sincope sul secondo movimento ed il moto alternato di scale del secondo violino e del cello è ora divergente mentre nella prima versione viola e cello erano paralleli. Questo passo è particolarmente infelice nella prima versione; la viola non può competere quanto a potenza di suono nella stessa tessitura del violoncello e manca perciò di autorevolezza, ciò che impedisce al passo di esprimere tutta la sua energia.

La ripresa non presenta altre novità se non nel ponte modulante che giunge al tema secondario in esso contenuto lungo un percorso armonico diverso e più lungo di due battute. Questo tema secondario, abbiamo dimenticato di dire, è derivato dal primo inciso del primo tema; il basso albertino del secondo violino che lo accompagnava nella prima versione scompare a favore di una enunciazione mimetica del motto di tre note. Inoltre si perdono sei battute di ripetizioni prima di arrivare alle scale che porteranno alla ripresa del secondo tema. Lo sviluppo perde la prescrizione di ritornello.

La coda inverte le parti di primo violino e viola: quella caratteristica discesa a saltelli del primo violino, convergente al moto del secondo, era affidata alla viola. Lo scambio tra violino primo e viola produce una inversione della prospettiva del moto, prima divergente tra secondo e viola, poi convergente tra primo violino e secondo. Quella che prima era la risposta del primo violino alla viola, e che ora è solo la conclusione della sua stessa frase, ingloba ancora una volta il motto di tre note, questa volta legate, in luogo di una seconda ripetizione dell’inciso iniziale. Il culmine della coda è raggiunto con uno sforzato mentre prima era il momento in cui improvvisamente mancavano le forze. Il pedale che segue acquista due battute prima del ruzzolone finale, reso ancor più energico da tre sforzati sul terzo movimento della battuta.

Complessivamente il movimento perde 16 battute - 329 contro 313 - oltre a 170 battute di sviluppo non più ritornellato. Per gli amanti dei numeri dirò che si perdono anche 21 ripetizioni dell’inciso iniziale (127 contro 106), senza contare le ripetizioni imposte dai ritornelli. Tenendone conto le comparse dell’inciso iniziale sono complessivamente 241 nella prima versione - una cifra francamente spaventevole - e “solo” 148 nella versione definitiva. Il punto di maggior densità è nello sviluppo, tra le battute 137-172, 36 battute di cui 35 contengono quest’elemento, 31 volte di seguito. Nel punto corrispondente, che, come visto, dura due battute di più (129-172) le ripetizioni sono solo 33. La diminuita densità rende, per contro, ancor più evidente e significante ogni apparizione di quel frammento.

Va detto, perché in questo è il merito di un organismo tanto esteso costruito su un materiale così scarno, che questa ripetizione ossessiva di un singolo elemento non affatica all’ascolto, usato com’è su diversi piani, sia come elemento tematico, sia come parte di accompagnamenti. Piuttosto, questa rassegna del materiale mostra con quanto poco sia costruito l’intero movimento: l’inciso iniziale, che prolifera in ogni angolo e da cui è tratto il tema secondario del ponte modulante, la figura ritmica del secondo tema da cui è tratta quella frase costruita anch’essa con coppie di crome, il motto di tre note, ch’è incorporato in molte figure dello sviluppo e che è l’origine di quei tre lunghi accordi e della transizione alla coda, le scale di quartine e non altro. La versione definitiva realizza compiutamente una complessa rete di relazioni tra questi elementi, sviluppa ulteriori contiguità tanto che non esiste materiale che non derivi da ciò che è stato descritto. L’intero primo movimento è costruito con materiale musicale estremamente limitato e in sé estremamente povero. Eppure all’ascolto ciò non traspare, non mancano né varietà né sorprese.

Non è il caso, è ovvio, di proporre un confronto di qualità, anzi, non è nemmeno interessante. Considerare il Quartetto H.32 solo in funzione della sua relazione col cugino Op.18 n.1 significherebbe negargli la dignità di una identità specifica, dignità che invece certamente possiede. Il Quartetto H.32 offre un’occasione unica, non solo nella storia della produzione beethoveniana. L’occasione è tanto più preziosa perché possiamo confrontare, anche semplicemente a memoria, tanto diversamente “suonano” le due versioni, le soluzioni provvisorie col risultato definitivamente sottoscritto. Nel prepararne l’esecuzione, ci siamo trovati nella strana situazione di affrontare un’opera del tutto nuova ma sostanzialmente identificabile in un’opera conosciuta, col rischio di farla assomigliare all’Op.18 più di quanto non sia veramente o, al contrario, di sottolinearne in modo caricaturale ogni aspetto particolare. Del resto, è difficile guardare alle debolezze di questa partitura senza aver desiderio di correre a vedere come siano state rimediate. Vale però anche la considerazione contraria, e cioè che queste ci appaiono aggravate dal paragone.

Strano è il destino del quartetto d’archi: mette soggezione. Tale è la sua connotazione di laboratorio avanzatissimo, di luogo di elevazione spirituale, che qualche volta ci si vergogna di qualche peccatuccio. Così scriveva Beethoven ad Amenda il 1 Luglio 1801:

“Mi raccomando di non passare ad altri il tuo quartetto, al quale ho apportato alcune modifiche sostanziali. Soltanto ora ho imparato come si scrivono i quartetti; te ne accorgerai, credo, quando li riceverai”.

La dedica definitiva dell’Op.18 è al Principe Lobkowitz, uno dei mecenati di Beethoven.


Fulvio Luciani

Milano, 15 III 1995