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Brahms, Sinfonia n.1 op.68: una lettura

dal programma di sala per il concerto de laVerdi diretto da John Axelrod, 3 novembre 2013


C’è un aspetto che mi colpisce sempre della musica di Brahms, ed è la bellezza di alcuni suoi temi. Sono così belli - ma belli è troppo poco, e ascoltandoli capirete cosa intendo - che, ogni volta, rimango sgomento all’idea che sia stato un uomo a scriverli, tanto mi sembrano superumani. Hanno la maestà delle cose nobili e, insieme, una semplicità di modi che ce li rendono vicini. Ho l’impressione che facciano parte di quei tesori a disposizione dell’uomo, come lo è la visione del cielo notturno, del mare, delle montagne, alla contemplazione dei quali ognuno si sente grato e insieme infinitamente piccolo. Uno di questi temi apre, affidato ai violini, il quarto movimento della Prima Sinfonia; non ho vergogna a dire che al sentirlo sono sempre quasi sopraffatto dalla commozione.

Per il mestiere che mi sono scelto, non mi capiterà mai di suonare quel tema immerso in un’orchestra, ma più di una volta non ho resistito alla tentazione e me lo sono suonato da solo, insieme ad altri rubati anche ad altri strumenti, sognando. Joseph Szigeti, celebre violinista ungherese del Novecento, in un libro di diteggiature include il passo dei violini della Leonora di Beethoven, accompagnato da queste parole: “Tutte le volte che ho ascoltato l’Ouverture della Leonora n.3 (il più delle volte dietro le quinte) ho sempre invidiato i componenti della sezione violini per il brivido che deve provare ognuno di loro nel tuffarsi in questo eccitante brano di virtuosismo collettivo. Eccolo, per la soddisfazione del violinista solitario”. Non c’è virtuosismo nel tema di Brahms, ma sono parole che potrebbero valere anche per il mio gioco.


Brahms è atteso alla prova di una Sinfonia fin dalla pubblicazione del famoso articolo con cui Schumann l’aveva rivelato al mondo, nel 1853; ci arriva solo nel 1876, ventitré anni più tardi e dopo una gestazione di più di dieci, con l’op.68, già oltre la metà del proprio catalogo, alla fine composto da 122 numeri.

L’avvicinamento è lento e prudente, forse segnato anche dal senso di responsabilità conseguente quell’articolo così insolitamente dedicato ad un ventenne sconosciuto, e avviene per tappe successive, in cui la scrittura per l’orchestra è prima sperimentata in composizioni meno impegnate - qualche volta gettando il sasso e ritraendo la mano, com’è il caso del Concerto per pianoforte e orchestra op.15, che nasce Sonata per due pianoforti, viene trasformato in Sinfonia e infine, dopo mille rimaneggiamenti, diventa quel che conosciamo - secondo un percorso di avvicinamento alle forme più elevate della tradizione che per arrivare alla Sinfonia comincia dalla Serenata, così come nella musica da camera prima di arrivare al quartetto d’archi si era passati dal sestetto, che è formazione meno illustre e con meno storia.


Le reazioni dividono la critica. Da una parte il favorevole Hanslick lo apparenta a Beethoven - Hans von Bülow addirittura definisce la Sinfonia “la Decima”, alludendo naturalmente alle nove di Beethoven -, dall’altra l’avversario Hirsch riconosce al suo lavoro “la forza morale, la purezza, la profondità della sua concezione del mondo e della vita, unitamente a quell’intellettualità di cui dà prova: tutte particolarità che gli hanno sempre guadagnato la stima degli animi nobili, ma che gli hanno impedito nello stesso tempo di conquistare il favore della massa”, ma rileva anche “mancanza di fantasia ispirata, assenza di fascino e di sensibilità, un ascetismo tetro che arriva quasi all’insipidezza”. Forse, proprio nel timore che la complessità della sua Sinfonia sconcertasse anche amici e sostenitori, molti dei quali la conoscevano già dalle innumerevoli audizioni private avvenute nel corso di quell’infinita gestazione, Brahms aveva organizzato un’anteprima dell’esecuzione viennese - la Sinfonia era già stata eseguita a Karlsruhe - in casa di un fabbricante di pianoforti, in cui era lui stesso ad eseguirla a quattro mani al pianoforte.


La vocazione alla complessità del linguaggio, da cui consegue la predilezione per la musica da camera che ne è il teatro più proprio, e il problema dell’appartenenza ad una tradizione e ad una genealogia delle idee, hanno sempre accompagnato Brahms, la cui scrittura è il risultato non della semplice e felice ispirazione bensì di un mestiere posseduto nel più profondo del possibile, in cui la massima arte combinatoria sortisce una perfetta illusione della spontaneità.

Io appartengo a coloro che da quella illusione sono stregati. L’umanità che vi colgo è più significativa della forma sofisticata che se ne fa tramite, e la meraviglia per i giochi di prestigio compositivi che sono ovunque nella produzione brahmsiana non mi appaiono, quando vado a cercarli e per quanto sapienti e raffinati siano, più che un gioco intellettuale. Viceversa, come ascoltatore ed anche come esecutore, la musica di Brahms costituisce per me una sincerissima avventura umana. Forse, non è un caso che la Sinfonia in programma quest’oggi si apra con qualcosa che non ha nessun pregio combinatorio e non possa vantare nessuna raffinatezza di scrittura: con un timpano - anche il Concerto op.15 cominciava così -, che non smette, ossessionante, di battere, e che fa iniziare una vicenda tanto attesa non dalla musica, appunto, ma da un rumore scarno e potente che tutti noi conosciamo quando siamo preda delle nostre emozione più profonde, il battito del cuore, che sembra squassarci il petto.


Fulvio Luciani