leggi
Camillo Sivori. La seconda volta
Amadeus, giugno 2012
Diversamente da quel che succede in altri campi, le riscoperte musicali spesso provocano diffidenza. Anche persone curiose, intelligenti e acute, sotto sotto tendono ad accodarsi all’idea che la storia abbia una specie di intelligenza, e che dimentichi strada facendo ciò che non vale la pena di ricordare.
Io, invece, sono di quelli che si entusiasmano: qualche volta la storia ritorna sui suoi passi - non fu dimenticato perfino Bach? - e valuta le cose una seconda volta. Così, quando Naxos mi propose di fare un disco per la collana 19th Century Violinist Composers mi sembrò un’occasione. Tra gli autori che mi suggerivano pensai fosse logico scegliere un italiano; Bazzini, che mi interessava, era già stato destinato ad altri e scelsi Sivori.
Di Sivori, però, davvero non sapevo gran che. Anni prima avevo trovato una vecchia edizione degli Studi-Capricci, e avevo in casa una biografia - regalatami - che avevo solo sfogliato. Ai Capricci avevo dato un’occhiata con l’idea di farli studiare ai miei allievi, ma li avevo letti in qualche modo e li dimenticai. Solo uno, il quinto, aveva attirato un po’ della mia attenzione: era un pezzo introspettivo - l’indicazione che porta è Andante religioso - e che stesse in una raccolta di Capricci, che sono per definizione pezzi da esibizione, mi era sembrata una curiosa contraddizione. Il virtuosismo è tutto rivolto all’ascoltatore, questo Capriccio guarda invece all’interiorità.
Non conoscevo altro. Mi feci aiutare a trovare altre musiche, tutte inedite al giorno d’oggi, e cercai di immaginare un programma per il disco.
Se di Sivori si sa qualcosa è che è stato allievo di Paganini, ma è una storia che a me non appassiona. D’accordo, Paganini fu probabilmente decisivo nel cogliere le qualità di Sivori fanciullo, e fece quel che non ti aspetteresti da un virtuoso feroce e ferino come certamente fu: seppe essere generoso e soccorrevole: scrisse dei pezzi per favorirne l’educazione, lo accompagnò alla chitarra quando fu deciso di presentarlo in pubblico, gli procurò un maestro che gli era stato allievo, Agostino Dellepiane, e un violino a cui Sivori rimase fedele per tutta la vita, e continuò per anni, anche da lontano, a tenersi informato dei suoi progressi.
Per parte sua, Sivori cercò addirittura di assomigliare a Paganini nelle fattezze - i capelli lunghi, le guance coperte di barba - e nella postura violinistica. Ma la questione tra loro si chiude qui, perché già al primo apparire di Sivori presso il pubblico internazionale - sfidando la memoria ancora viva di Paganini nel suo stesso repertorio - di lui si disse che era pari al maestro nel virtuosismo, ma addirittura superiore nella bellezza del suono e nell’eleganza, così da segnare fin da subito la misura della sua individualità. Se la vicenda di Sivori si esaurisse nel rapporto con Paganini sarebbe poca cosa; se fosse di più, a leggerla unicamente da quella prospettiva si rischierebbe di non capirlo. Forse, la suggestione di quel suo presentarsi come unico erede legittimo ha lavorato nella mente degli ascoltatori più a lungo di quel che avrebbe dovuto, e ha nuociuto alla percezione della sua figura. Non c’è niente di peggio, a questo proposito, del nomigliolo di “paganinetto” che si guadagnò all’epoca, e che, in mancanza d’altra scienza, vedo usare ancor oggi.
Dunque, Sivori era un virtuoso stupefacente, ma tra le meraviglie ch’era capace di mostrare al suo pubblico c’era posto anche per la pura bellezza del suono, e per un’espressione che non temeva di essere poco comunicativa perché intima. Io lo avverto come un tratto di modernità. Dalla figura del virtuoso ottocentesco - a suo modo una conquista - e dal modello paganiniano cui si era uniformato all’inizio anche per un’esigenza di comunicazione, Sivori aveva saputo con naturalezza inserirsi in quel processo storico che porterà all’idea dell’interprete moderno, e che avrà come punta estrema quel “servire la musica” di musicisti come il Quartetto Italiano che già oggi sembra essere dimenticato. Anche nella musica sua più di genere - penso ad esempio a Folies Espagnoles, tra le musiche contenute in questo disco - si ha l'impressione di una musica alta che offre occasioni al virtuoso, più che di una musica asservita all'esibizione dell’abilità. I segni più evidenti della sua evoluzione sono nell’attitudine alla musica da camera e nell’interesse per quello che nel tempo a venire diventerà il grande repertorio; quello forse più significativo è nella scelta di partecipare all’esecuzione integrale dei Quartetti di Beethoven avvenuta a Londra nel 1845 - la prima della storia -, in un momento in cui la sua fama non è ancora consolidata, come a reclamare che nella natura profonda della propria identità quartetto e repertorio non sono a margine del virtuosismo. La rinuncia progressiva all'armamentario di meraviglie che gli aveva garantito la celebrità a tutto favore del valore più grande della musica in sé - come fosse la spoliazione da una maschera -, non toglie a Sivori né carisma né successo, durante una carriera più che sessantennale.
Per me, la musica di Sivori è stata una scoperta. Per dire una parola di quella che è in questo disco, Folies Espagnoles è un grande pezzo davvero caleidoscopico, che raccoglie un’affascinante repertorio di musiche spagnole e di situazioni descrittive, come quelle ad imitazione del vento o del chant des vieilles femmes; La Génoise è un altro grande pezzo, in forma di variazioni dalla struttura libera e rigogliosa, nel quale l’impegno è equamente suddiviso tra gli strumenti e la scrittura per il pianoforte particolarmente ricca e propria; ma il cuore del disco, e di tutta la produzione di Sivori, è naturalmente nei Capricci, l’opera-manifesto della sua arte.
Nei Capricci, la qualità dell'invenzione musicale è sincera e ispirata, meno estroversa e in un certo senso più segreta che non in Paganini, espressa per il tramite di una tecnica che ha un che di combinatorio e di una sensibilità armonica molto personale. Il vertice della raccolta è - non senza significato - il Capriccio conclusivo, di una difficoltà da togliere il fiato. È scritto sugli unisoni, forse la cosa più ingrata che si possa chiedere al violino, ancor peggio delle ottave, la cui doppiezza magica e inafferrabile già si ottiene a caro prezzo. Gli unisoni per fortuna si incontrano di rado, e quasi sempre uno per uno. Non qui: il Capriccio si apre con un’intera frase ad unisoni, a cui rispondono dei difficili accordi, scritti in una posizione molto ricercata: unisoni ed accordi, unisoni ed accordi, lungo tutto il Capriccio. L’effetto è straordinario: quegli unisoni comunicano un malessere, quegli accordi una speciale serenità, perché hanno - se eseguiti come prescrive Sivori: con una difficile diteggiatura che permette di avere sempre una corda vuota nella nota mediana - una trasparenza e stabilità che contraddicono l’aggressività del gesto violinistico. Nessun artificio coloristico potrebbe surrogare il risultato: è l’invenzione musicale a determinare la tecnica necessaria ad eseguirla, anche quando si debba, com’è qui, plasmarne una nuova ed estrema.
In questo consiste il virtuosismo, in Sivori come in Paganini, non nella spettacolarità o in un arido traguardo di abilità: in una ricerca profonda e senza pregiudizi, che ha in sé, per come io la avverto, anche un connotato di onestà.
Spero che queste straordinarie musiche possano riuscire attraenti a tanti violinisti e ascoltatori, così come lo sono state per me.
Fulvio Luciani