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Glenn Gould, un’intervista

dal programma di sala del concerto del Quartetto Borciani al Teatro Regio di Torino, 6 IV 1993


Il quartetto di Glenn Gould è una composizione difficile da classificare. Si tratta di un blocco monolitico di trentacinque minuti di musica ininterrotta, tale, credo, da scoraggiare chiunque si accinga ad eseguirla. Nel prepararne l’esecuzione, ho avuto la preziosa opportunità di mettermi in contatto medianico con Glenn Gould, dalla regia di una sala di incisione. Va detto che la “distanza”, l’essere lui nel mondo dei più e io no, mi ha rassicurato a tal punto che, più che chiedere consigli, ho ceduto alla smania di criticare tutto, una debolezza tipica dell’esecutore che trova ogni scelta compiuta al contrario di come si doveva, ogni difficoltà inutile e così via. Del resto, il Maestro si è mostrato del tutto disinteressato tanto alla nostra esecuzione quanto alla difesa delle sue posizioni. Quella che segue é la fedele trascrizione della nostra conversazione.


Fulvio Luciani    Signor Gould, è così strano poterle parlare che non so più da dove cominciare.

Glenn Gould       Non si preoccupi, la prego.

F.L.    E’ che non riesco a non pensare che, così come ora parlo con lei, mi potrebbe capitare l’avventura, un giorno, di interrogare Bach, o Beethoven e...

G.G.    E?

F.L.    E, insomma, fosse capitato a lei...

G.G.    Cosa?

F.L.    Di parlare con Beethoven.

G.G.    Perché?

F.L.    Perché non credo gliel’avrebbe passata liscia!

G.G.    Per certe mie opinioni, intende?

F.L.    Be’, non avrà dimenticato di averne dette di piuttosto pesanti.

G.G.    Se è per questo, ho trattato altri ben peggio. Guardi Mozart.

F.L.    Oh, lo so.

G.G.    E’ di questo che dovevamo parlare?

F.L.    Mi scusi, non ho saputo resistere. E’ che certe sue uscite sembrano fatte apposta per litigare.

G.G.    Dunque, cosa la interessa?

F.L.    Forse, ma ci sto pensando solo ora, è il discorrere con lei del rapporto tra il creatore e l’opera, con una certa attenzione per quel terzo incomodo dell’esecutore. Lei ha detto che “il carattere, la fisionomia del brano non è importante ma è qualcosa che può essere mutato a piacere”. Continua a crederlo anche in veste di compositore?

G.G.    Riguardo il mio quartetto ho lasciato uno scritto che racconta come e perché l’ho composto.

F.L.    Un po’ generico, però.

G.G.    Ma sincero.

F.L.    Certo, e anche divertente. Qualcosa, però, ha tralasciato di scrivere. Ad esempio, nella sua analisi non menziona affatto la Große Fuge.

G.G.    Dovevo?

F.L.    Beh, tutto il suo quartetto è costruito sul soggetto della Große Fuge.

G.G.    Mi perdoni, anche la Große Fuge è costruita sull’ultimo soggetto dell’Arte della Fuga, quello sul nome di Bach.

F.L.    Quello è un omaggio segreto: nessun ascoltatore se ne accorgerà mai. Lei cita la Große Fuge in maniera smaccatamente riconoscibile.

G.G.    Non potevo?

F.L.    Certo che sì, ma perché non dirlo? Intendo, perché non parlare di una questione inevitabile, tanto è evidente?

G.G.    Forse perché è evidente?

F.L.    O forse perché è inevitabile? Io credo sia per pudore.

G.G.    Pudore?

F.L.    Sì, o riguardo, se preferisce; o, se preferisce ancora, imbarazzo della sua stessa sfacciataggine.

G.G.    Non saprei cosa preferire.

F.L.    Anche la sua citazione, nella sua spudoratezza, è un omaggio. Forse, parlandone, lei ha temuto di tradirne il valore affettivo.

G.G.    Lei pensa che Beethoven mi perdonerebbe per la questione del Re Stefano?

F.L.    Forse no, se sentisse l’uso che ne ha fatto, di quel soggetto...

G.G.    ...?

F.L.    Eh, sì, converrà con me che l’atmosfera del suo quartetto è di una sensualità così torbida che vien da ridere a pensare alla sacralità della Große Fuge.

G.G.    Ho scritto io per primo che mi sono stupito di come fosse.

F.L.    Doveva farsi perdonare per quel passaggio operistico, addirittura verdiano, al violoncello, nella coda? E di quel po’ di Strauss e Wagner presi a prestito?

G.G.    Perché?

F.L.    Alla fine il risultato è un minestrone: di tutto un po’.

G.G.    Dovevo scriverlo come sarebbe piaciuto a lei?

F.L.    No, certo. Sarà però dell’idea che un minimo di coscienza storica farebbe polpette del suo quartetto.

G.G.    Al contrario, credo che nel mio quartetto, di coscienza storica ce ne sia fin troppa.

F.L.    Mi permetta, distinguerei tra coscienza e conoscenza.

G.G.    Lei distingue, quando suona?

F.L.    Non è la stessa cosa. E poi, dopo tutte le libertà che si è preso lei, cosa mi dice di quei metronomi così pedanti?

G.G.    Non sarà anche lei di quelli che sostengono che i metronomi degli autori sono sbagliati. Mi sembravano utili, ecco tutto.

F.L.    Utili! Lei ha scritto dei rallentando di decine di battute con variazioni di una tacca di metronomo per volta. Viene voglia di ignorarli per dispetto.

G.G.    Non gliene chiederei conto, glielo assicuro.

F.L.    Ma crede davvero che abbiano senso? L’intero quartetto segue un arco accelerando-rallentando ripetuto due volte. Peccato siano 815 battute, tutte di fila, trentacinque minuti di musica! E crede forse di aver scritto un quartetto solo per aver dato a tutti la loro quota di frasi a solo?

G.G.    La vedo piccato. Non sarà perché il secondo violino sale più alto di lei?

F.L.    E’ un’accusa che non merito.

G.G.    Credo invece di sì.

F.L.    Ci sono frasi spezzate fra più strumenti in maniera puerile!

G.G.    Le voleva tutte lei?

F.L.    Si sente democratico per averlo fatto?

G.G.    Se le dicessi che proprio non ci ho fatto caso?

F.L.    Non le crederei, naturalmente.

G.G.    Insomma, il mio quartetto non le piace, perché suonarlo?

F.L.    Perché mi diverto. Lei mi ha sempre ispirato una franca antipatia ma il suo quartetto è scritto in maniera così irritante che mi è quasi diventato simpatico.

G.G.    Contento lei. La saluto.

F.L.    Non mi ha risposto, comunque.


Milano, 15 III 1993

Fulvio Luciani