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Intorno a Brahms. Introduzione e note di lavoro

dai programmi di sala per i concerti del ciclo tenuto insieme a Massimiliano Motterle per laVerdi, ottobre-dicembre 2013


Spesso, i grandi autori ci accontentiamo di amarli di un amore abitudinario, un po’ secondo norma. La passione vera, quella che fa mancare il fiato, la riserviamo alle scoperte che facciamo da soli, per quanto minime possano essere. Personalmente, quando ho cercato di mettere alla prova il mio amore ho sempre trovato che le ragioni che avevo erano poca cosa, e che ce n’erano altre di molto migliori.


Naturalmente, mi piace Brahms. Così, quando è venuto il momento, con Massimiliano  Motterle abbiamo deciso di correre l’avventura: non solo le tre canoniche - e bellissime - Sonate, ma anche tutto quel che ci sta intorno: Schumann, Mendelssohn, Joachim, e tutto quel che avremmo potuto trovare e legittimamente suonare col violino e il pianoforte.

Così, abbiamo imparato che anche le due grandi Sonate della maturità, le Sonate op.120 per clarinetto e pianoforte - e per Brahms la maturità fu un’epifania, un dono inatteso che venne quando già aveva deciso di non scrivere più, dopo il Quintetto op.111 -, Brahms le aveva riscritte per violino, e non tutti lo sanno; che i Walzer op.39 li aveva adattati al violino l’editor di Casa Simrock, ed è ovvio pensare che Brahms abbia visto e approvato il suo lavoro e che molti all’epoca i Walzer li suonassero nelle loro case; che anche Mario Castelnuovo-Tedesco aveva fatto, molti anni più tardi in America, qualcosa di simile con un’opera tarda per pianoforte, i Tre Intermezzi op.117, per Brahms “la ninna nanna dei miei dolori”. Insieme ad altri furtarelli di grandi violinisti, Kreisler, Auer e Joachim, sia dalla musica più giocosa di Brahms che da quella così letteraria di Schumann, ne è nato un ciclo, che è insieme un viaggio in un’epoca - in fondo non così lontana: prima della morte di Brahms, Meucci aveva inventato il telefono, i Lumière il cinema, ed era stata fondata la Coca-Cola Company - e in un ambiente, e nella loro viva persistenza negli anni successivi.


Se guardo indietro, forse è Schumann - il punto di partenza di questa avventura, e in un certo senso l’antitesi della musica brahmsiana - l’autore cui mi sono sempre rivolto, fin da studente. Schumann aveva in testa un violino diverso da quello che hanno in mente i violinisti: non il solito bellone un po’ pieno di se stesso ma una specie di macchina della verità, in grado di svelare i nostri pensieri più nascosti. Col violino non è questione di abilità ma di pensiero: non riuscirai mai a suonare “come vuoi” perché quel “che sei” e che pensi scapperà sempre, fuori dal tuo controllo. Se ti arrendi, può essere molto interessante. Se impari ad ascoltarti, può essere che tu impari a conoscerti. Sennò, ti aspetta una vita grama, ma potrai sempre sperare di ingannare i tuoi ascoltatori con qualche bravata. Allora, Schumann semplicemente non lo suonerai. 

Come sarà con Brahms, lo capiremo. Ne riparliamo.



note di lavoro: il suono di Schumann


Nel 1853 - in questi giorni: il 30 settembre - Brahms fece visita a Robert Schumann, a Düsseldorf. Senza tante cerimonie gli fu chiesto di suonare la sua musica. Il 28 ottobre, la Neue Zeitschrift für Musik pubblicava un articolo intitolato “Vie nuove”, in cui Brahms veniva descritto da Schumann come un messia, “chiamato a tradurre in modo ideale la più alta espressione dell’epoca [...]. Egli è tra noi, creatura dal sangue giovane, e attorno alla sua culla hanno vegliato le Grazie e gli Eroi. Il suo nome è Johannes Brahms”, una rivelazione e una consacrazione.

Sempre il 28 Schumann, Dietrich, suo allievo, e il nuovo amico Brahms, fecero trovare a Joachim una Sonata scritta in dieci giorni per fargli una sorpresa. Dietrich di quella Sonata aveva scritto il primo movimento, Brahms lo Scherzo - la prima musica che gli conosciamo per violino e pianoforte -, Schumann, che aveva promosso l’idea, l’Intermezzo e il Finale. L’indomani Schumann diresse un concerto al Festival del Basso Reno che sarebbe stato il suo ultimo, e di lì a pochi giorni Brahms partì per stabilirsi ad Hannover insieme a Joachim. Era trascorso un solo mese, fondamentale per i destini di Brahms e in cui Schumann aveva goduto di un ultimo cascame di lucidità. 

Schumann non scrisse più, se non altri due movimenti per violino e pianoforte a completare una Sonata tutta propria, la sua terza, e il 4 marzo seguente entrò nel manicomio di Endenich, dove morì due anni più tardi.

Inizia da qui, da Schumann e da questa occasione fortuita in cui le musiche dell’uno e dell’altro sono vicine, il nostro ciclo dedicato a Brahms.


Il mestiere di esecutori ci porta a fare cose che, osservate da un altro punto di vista, sono spesso prive di logica. In fondo, noi abbiamo l’occasione di un rapporto carnale con la musica e spesso, nella vertigine che ne deriva, o semplicemente distratti dalla necessità di imparare la tecnica necessaria ad eseguire i pezzi, ci facciamo ben poche domande. È un bene e un male. Quando poi quelle domande riescono a farsi largo, spesso ne siamo i più sorpresi.

Ho iniziato a suonare la terza Sonata di Schumann senza conoscere quasi nulla della sua storia, e avendo sempre un po’ storto il naso alla Sonata collettiva di cui ho detto. Così, della distanza estrema che separa la felice, giovanile semplicità dell’Intermezzo dall’ispida complicazione tecnica e musicale del Finale, non avevo né coscienza né opinione; in cuor mio pensavo fossero due musiche bellissime in maniera del tutto differente, scritte chissà quando e collocate lì alla bell’e meglio. Invece, sono tutte e due insieme l’esito ultimo - o meglio, penultimo: degli altri due movimenti della Terza Sonata parleremo in occasione dell’ultimo concerto di questo ciclo, quando la Sonata sarà eseguita per intero - di una mente posseduta dalla poesia e dalla follia in eguale misura, facce difformi di un’unica fisionomia. Forse, se mi fossi fatto qualche domanda, avrei colto fin da subito l’ambivalenza di quell’accostamento; ma, così com’è andata - lo ripeto, per pura ignoranza -, ho potuto misurare su me stesso la loro cifra, e, avendole dapprima considerate come due cose separate in tutto, ora la loro coincidenza mi appare ben più significativa.


Nella nota introduttiva a questo ciclo ho detto che, a dispetto delle preferenze che sempre dichiaro per altri, è Schumann l’autore a cui ho continuato a rivolgermi durante il corso della mia vita. Ho letto il Concerto all’epoca del corso medio, studiato la prima Sonata prima del diploma e il terzo Quartetto al primo corso estivo che ho frequentato, suonato tutti i Quartetti, il Quintetto e un programma in duo con pianoforte in un ciclo che ha avuto vita nel 2001 proprio qui all’Auditorium e che era trasmesso in diretta su Radio3, e ne ho registrato la musica per violino e pianoforte in disco e in video. Certo, la vita di un esecutore è un continuo tornare sui propri passi, e non c’è nulla di strano se ricorrentemente sono tornato a Schumann. Ma viene da farsi qualche domanda se pensate che è un autore che molti avvertono contro il violino.

Si sa che Schumann è stato prima di tutto autore di musica per pianoforte, ma è curioso notare quanto Paganini sia stato importante per lui, più per la sua musica pianistica, in verità, che non per quella che coinvolge il violino: Paganini lo si incontra in una delle maschere di Carnaval op.9, negli Studi op.3 e op.10 basati sui Capricci, e nell’accompagnamento pianistico a tutti e 24 Capricci, senza numero d’opera. Ma quel che Schumann non può aver ricavato dal vivo ascolto di Paganini è la sua idea del suono violinistico che è, invece, del tutto personale, in un certo senso forse addirittura più originale della sua voce pianistica, pur essendo per molti il limite della sua scrittura per il violino.


Com’è il suono di Schumann? Si potrebbe dire che è un suono non-violinistico, scuro, povero di canto in favore di una specie di parlato, sempre condizionato dal problema di opporsi ad una scrittura pianistica densa e altrettanto centrata su una tessitura media, dove il pianoforte è tanto più potente e fatica ad essere trasparente per lasciar spazio al violino quando serve. Credo sia la natura profonda del meccanismo creativo schumanniano a volere quel suono, e che di quella natura  il violino sappia rendersi tramite forse addirittura ideale, comandato com’è non dalla volontà ma dal profondo interiore dell’esecutore, quello stesso profondo che ha governato l’autore nel momento della creazione, senza cercare un tramite compositivo in senso stretto per potersi esprimere, senza che un esito costruttivo abbia veramente importanza, a dispetto dell’uso di forme - com’è quella della Sonata - alte e consolidate.


Prendiamo la Sonata op.121. In essa ciò che prevale non è il senso della narrazione, del racconto, è invece uno stato d’animo, che perdura quasi senza bisogno di una vicenda, e per un tempo straordinariamente lungo per una Sonata per violino e pianoforte. Quasi non ci sono temi, non sorprese, non volubili mutamenti di carattere né occasioni per spendere le proprie qualità di esecutore sensibile ed elegante - ed è forse soprattuto per questo che per lungo tempo i violinisti si sono tenuti lontani dalla musica di Schumann -, ma è ben chiara la sensazione di malessere che la pervade tutta, il colore, quasi l’odore della situazione potentemente espressiva che è, essa stessa, l’oggetto del racconto.

Brahms non è così. Se Schumann scrive come fosse in presa diretta, Brahms programma, fabbrica, deduce, e consegue con straordinaria maestria l’illusione della spontaneità. La sua è un’arte quasi antitetica rispetto a quella di Schumann, ed è curioso e significativo che si siano reciprocamente riconosciuti quando la loro diversità avrebbe potuto renderli nemici o sordi l'uno all'altro.



note di lavoro: il violino di Brahms


Brahms ha con il violino un legame profondo e antico.

Lo suona da bambino assieme al padre, in locali non proprio di prim’ordine della sua città natale, Amburgo.

Poi, è il violino a portarlo via di lì, grazie al violinista Ede Reményi, un virtuoso di origine ungherese, che fa di Brahms il collaboratore pianistico delle sue imprese.

Di violinista in violinista, è Reményi a far conoscere a Brahms Joseph Joachim, che diverrà interprete della sua musica e un consigliere molto ascoltato con cui Brahms rimarrà in contatto tutta la vita.

Già all’incontro con Schumann - cui abbiamo accennato la volta scorsa - Brahms ventenne porta con sé una Sonata per violino e pianoforte, e al violino è dedicata la riscrittura delle due Sonate op.120, in origine per clarinetto, che Brahms pubblica nel 1895: quasi il primo, quasi l’ultimo suo lavoro.


È nota la prudenza di Brahms nell’affrontare le forme alte della tradizione di cui si sente erede, quella che risale a Beethoven, a Mozart, fino a Bach: il primo quartetto d’archi porta il numero 51 del suo catalogo, ed è pubblicato dopo che ne sono stati progettati a decine, spesso eseguiti alla presenza di amici fidati prima di essere distrutti, e la prima Sinfonia è al numero 68, ben ventitré anni dopo che nel suo famoso articolo Schumann gliel’aveva indicata come il destino al quale era atteso. Si tralascia, però, di notare che l’avvicinamento al violino richiede ancora più tempo: dopo la Sonata per violino e pianoforte fatta ascoltare a Schumann, perduta da un editore cui era stata affidata che non la pubblica perché più interessato a pezzi per pianoforte solo - ma non tutto è chiaro nella vicenda, perché forse è anche Brahms a lasciar perdere -, non ci sono pezzi per violino fino al Concerto op.77, e la prima Sonata è al numero seguente, 78, come sempre susseguente ad altre, completate e distrutte. Stupisce, perché come abbiamo detto Brahms ha una lunga frequentazione col violino nell’esperienza viva e carnale del suonare insieme, e in Joachim un consigliere fidato capace di guidarlo nella risoluzione dei problemi di una scrittura tecnicamente propria per lo strumento.

Forse, il problema è nella natura del violino, ed è un problema di discrezione.


Nell’introduzione a questo ciclo ho descritto il violino come una specie di macchina della verità, comandata direttamente dall’immaginazione più che dai movimenti delle dita, e in grado di svelare i pensieri più nascosti. Schumann coglie appieno questa qualità: è il violino, più che il pianoforte, il suo ultimo strumento, quello che riesce a dare voce, con un suono che è più un ruggito che un canto, ai fantasmi della sua mente quasi inghiottita dalla follia e a cui al crepuscolo della sua vita dedica un Concerto e la sua terza Sonata, opere affascinantissime ed estreme in ogni senso che la moglie Clara e l’amico Brahms, forse non capendole appieno, escluderanno del catalogo delle sue opere. Ma non è questo ciò che Brahms cerca nel violino.


Brahms, per il violino, la cui voce è dotata di una bellezza vistosa e di una forte seduttività, sceglie sempre la forma alta e costruita della Sonata, diversamente da quel che fa col pianoforte, per il quale scrive sonate solo in gioventù e al quale nella maturità riserva straordinarie pagine del tutto libere da obblighi formali, come a riconoscere che la voce del violino può essere pericolosa, può rivelare una verità inopportuna e richieda per poter essere maneggiata di un surplus di autocontrollo che gli obblighi della forma garantiscono.

E poi, sceglie di far cantare al violino, che è sfacciatamente protagonista per natura, una musica riservata e poetica. Non lo snatura: non che non sia canto, il suo, ma com’è canto quello dell’opera lo è anche quello del lied e Brahms inclina più per questo secondo, e per il violino sceglie più per un cantare dentro a sé e per sé che non per lo spettacolo.


C’è coerenza in questo. La scrittura di Brahms è sempre frutto non di un’accensione dell’immaginazione ma di un lavoro minuto di derivazione, protratto fino ad una messa a punto che dà l’illusione della spontaneità (nel mio minuscolo, credo di capire questa maniera di procedere: anch’io, quando scrivo lo faccio più per seguire i miei pensieri e per chiarirmeli man mano; e quando suono, un singolo particolare colto in una nuova luce mi costringe a rivedere tutto di nuovo, e di nuovo ancora al prossimo particolare, e ancora, e  ancora). E l’idea stessa della poesia è l’idea di una costrizione capace di esaltare, più che di condizionare, la potenza di ogni singola parola.

Non c’è senso dello spettacolo virtuosistico, nella musica violinistica di Brahms, non ci sono né eroismo né forza. C’è, invece, un’enorme intensità poetica, spesso un incanto, costretti entro una rappresentazione interiore che è anche fragile e intima e pudica.


Non saprei descrivere con chiarezza la qualità della voce violinistica di Brahms. So cosa vuole dire ma la sua natura conserva per me un tratto elusivo, che quasi contraddice la modalità tecnica, invece molto franca, che chiede per essere espressa, una modalità che pretende ampiezza, profondità di suono e che sembrerebbe più adatta all’estroversione che all’intimità. Così, trovo che le tre Sonate possano essere eseguite anche con ingenua generosità, rimanendo bellissime. Penso all’immagine a cui siamo più abituati di Brahms, quella senile di un omone barbuto che sembra gigantesco, un’immagine che davvero non riesco a rendere coerente con quella più antica del giovane quasi angelico dai lunghi capelli biondi che è stato. L’aspetto maturo sembra forse più una scelta, quasi una maschera, che non il naturale deposito degli anni sui lineamenti. Ma avrei voluto incontrare quello sguardo per poter scoprire quel che quella maschera voleva nascondere, e che credo che la sua musica, questa in particolare, potentemente svela.



note di lavoro: l’immagine riflessa


I musicisti classici hanno strani tabù. Uno dei più buffi è: se una musica non è scritta per il tuo strumento non ti puoi abbassare a suonarla. Così, molto di quel che è in questo ciclo, i violinisti non l’avrebbero suonato mai - le Romanze op.94 di Schumann, ad esempio, perché la loro prima destinazione è per l’oboe e il violino è solo una possibile alternativa, o le Sonate op.120 di Brahms, perché ignorano che Brahms le ha riscritte in una versione per violino -, e il nostro gioco sarebbe finito già la scorsa volta.

Una musica scritta per il tuo strumento è comunque un concetto molto lasco. Proprio il tuo, o, genericamente, uno come il tuo? Può sembrare una distinzione un po’ sofistica ma, provate a pensare: in una lodevole ricerca di autenticità, come ci si dovrebbe regolare, tanto per fare un esempio, con una specifica Sonata di Beethoven? Ci si dovrebbe servire del pianoforte per il quale è stata pensata, tra i molti e molto diversi che Beethoven ha usato, tutti nemmeno parenti di quelli attuali? E suonerebbe come allora, stante che tutto ciò che gli sta intorno, il mondo in cui è contenuto e l’universo sensibile e delle idee che quel mondo abita, è cambiato? Tutto questo ha veramente significato per la musica?


Ad ogni modo, quel tabù vale più per gli interpreti che non per gli autori.

Brahms, che è quel che ci riguarda, molto spesso è arrivato alla definitiva veste strumentale dei suoi pezzi per tentativi: il Concerto per pianoforte op.15 è stato prima una Sonata per due pianoforti, poi una Sinfonia e finalmente, dopo mille rimaneggiamenti, il Concerto che conosciamo; il Quintetto op.34 è stato un Quintetto con due violoncelli, poi una Sonata per due pianoforti - arrivata ad essere eseguita in pubblico, insieme a Tausig - e infine, dopo il consiglio di Clara Schumann di trasformarla in Sinfonia, un Quintetto per pianoforte e archi; addirittura, lo Scherzo del secondo Concerto per pianoforte era stato pensato entro il Concerto per violino, e che ne sia stato tolto dispiace ancora adesso.

Non che Brahms fosse un sor Tentenna: è che in fondo la veste strumentale di una composizione non è che un’approssimazione dell’idea formatasi nella mente del compositore, che di quell’idea inevitabilmente rivela solo alcuni tratti. Una veste strumentale altra non è necessariamente una veste minore ma, appunto, semplicemente un’altra veste, con una sua peculiare capacità di render manifesti altri tratti.

Se siamo d’accordo che suonare su un altro strumento - dove “altro strumento” lo sono, per definizione, proprio tutti, a un grado di distanza tutto da definire, ma non così significativo - non è tradire, si apre allora un mondo di meraviglie che io non vorrei negarmi.


Il programma di quest’oggi raccoglie musiche tutte arrivate al violino con un secondo atto creativo.

Brahms aveva manifestato l’intenzione di non comporre più dopo il Quintetto con due viole op.111, una magnifica conclusione per una vicenda creativa tanto importante; invece, dopo aver ascoltato uno straordinario strumentista, il clarinettista Richard Mühlfeld, cambiò idea e decise di continuare. Non fosse stato per Mühlfeld non avremmo avuto il Trio col clarinetto op.114, il Quintetto con clarinetto op.115 né le Sonate op.120, ma nemmeno le opere da 116 a 119 per pianoforte, una straordinaria e poeticissima epifania creativa di cui, ora che la possediamo, non ci sarebbe sembrato possibile d’esser rimasti senza.

Dire per quale strumento siano le due Sonate op.120 è, però, più arduo del solito.

Furono scritte per clarinetto o viola, due strumenti che hanno caratteristiche, soprattutto di penetrazione acustica, davvero non comparabili. Brahms decise di farne anche una versione per violino - che, come dicevo, i violinisti non suonano mai -, da pubblicare in un secondo tempo e per la quale si scusò con l’editore per il numero di interventi compiuti, che avrebbero reso più complessa e onerosa la stampa. Ma va detto che Mühlfeld - che era stato violinista - suonava un clarinetto costruito appositamente per lui, che nessun altro ha usato. Dunque, a rigore, le Sonate op.120 e tutti gli altri pezzi che ho citato sono stati scritti sulla suggestione di quel suono, per quel clarinetto, e suonarle su uno strumento diverso da quello è un’approssimazione non migliore di altre. Ma, come dicevo, è un’approssimazione che non allontana dalla verità. Tre versioni, dunque, per tre strumenti diversi nei fatti e nella psicologia.


Di danze ungheresi Brahms aveva esperienza fin da quando in gioventù ne suonava col violinista Ede Reményi. Quando ne pubblicò la sua raccolta, proprio Reményi, geloso del successo che ottenne fin da subito, intentò una polemica, poiché sosteneva che Brahms si fosse appropriato di un patrimonio dei musicisti ungheresi. Brahms, però, aveva pubblicate  le Danze come adattamenti per il pianoforte, chiarendo fin da principio che si trattava della trasposizione di un repertorio folklorico. Almeno una di queste, però, era interamente sua, ed è compresa nella selezione eseguita quest’oggi: è la n.14.

Come sempre, Brahms scrisse le Danze Ungheresi per pianoforte a quattro mani, ne trascrisse una parte per pianoforte solo, e ne orchestrò alcune. Le versioni per violino e pianoforte sono dell’amico Joachim - e si tratta di versioni da considerarsi autentiche come le avesse fatte Brahms stesso - e di un altro violinista celebre, Fritz Kreisler.


I Tre Intermezzi op.117 - “la ninna nanna dei miei dolori” -, una delle straordinarie opere pianistiche della maturità, sono qui nella rarissima versione per violino e pianoforte di Mario Castelnuovo-Tedesco.

Castelnuovo-Tedesco è una figura oggi un po’ dimenticata, che meriterebbe un discorso a parte. Fiorentino, nel 1939 fu costretto ad emigrare negli Stati Uniti in conseguenza delle leggi razziali. Fu un pianista e un compositore molto riconosciuto. Il suo debutto americano ebbe luogo alla Carnegie Hall con la New York Philharmonic Orchestra sotto la direzione di John Barbirolli, e tra gli interpreti della sua musica ebbe nientemeno che Toscanini, Mitropoulos, Koussevitzky, Heifetz, Gieseking, Segovia e Piatigorsky: non semplicemente personaggi illustri ma l’assoluto non plus ultra della sua epoca.

Fu anche un importante didatta. Furono suoi allievi, in un rapporto liberamente cercato al di fuori delle istituzioni, John Williams, Henry Mancini e André Previn, tra gli altri.

La sua attività getta un ponte tra la tradizione colta europea da cui proveniva e le esperienze della musica per il cinema di Hollywood e del jazz della costa occidentale - André Previn diceva che aver studiato con Castelnuovo-Tedesco era un requisito indispensabile per un musicista californiano, sia del cinema che del jazz -, che la rende una vicenda esemplare della musica del Novecento.


Ai Valzer op. 39 non avremmo rinunciato mai. Furono scritti per pianoforte a quattro mani, poi per pianoforte solo non senza modificarli un po’, e fu l’editor di Casa Simrock, Paul Klengel, a prepararne una versione per violino a pianoforte che, come quella per pianoforte solo rispetto a quella per quattro mani, interviene sul percorso armonico dei Valzer.

Valzer, il simbolo della spensierata città di Vienna, e il nordico Brahms sembrerebbero non poter andare d’accordo. Ma Vienna fu per Brahms una conquista, e forse lo fu anche il suo spirito.



note di lavoro: il fiore di una giovinezza, l’ultima maturità


Tutti noi, io credo, guardiamo con un’attenzione particolare alle parole che segnano il congedo dalla vita. In esse cerchiamo forse un messaggio, e di esse ci serviamo per rileggere ciò che è stato. Per uno strano caso, qualche volta quelle parole hanno la spontaneità che ci aspetteremmo dalla parola di un fanciullo, e accade anche, per converso, che le parole di questi ultimi sembrino provenire dall’esperienza di una vita che invece precedono. Tutto ciò vale anche per la parola d’arte.

L’ultimo programma di questo piccolo ciclo raccoglie opere poste alle estremità delle vite dei loro autori: un movimento di Sonata di Mendelssohn ragazzo, l’ultima composizione di Schumann, quasi l’ultima di Brahms. E la Ciaccona, nella versione con pianoforte che Mendelssohn scrisse purché i violinisti si decidessero finalmente a suonarla.


Mendelssohn morì trentanovenne nel 1847. Brahms aveva solo quattordici anni e non lo conobbe mai, se non attraverso la sua musica.

A soli quattordici anni Mendelssohn scrisse un primo tempo di Sonata per violino e pianoforte che non terminò, forse perché - rubo ad Alessandro Solbiati, che me lo ha fatto conoscere - il progetto intrapreso era troppo vasto e ambizioso. Non è la musica di un quattordicenne, seppur di talento. È una musica nuova, nel contenuto, nella narrazione e nella scrittura soprattutto per il pianoforte; nuova non grazie all’esperienza, alla riflessione, all’analisi o a scelte compiute: è, semplicemente, la musica di una persona che vede il mondo con occhi diversi dal passato, e che da subito e con naturalezza ce lo mostra.

Il movimento si interrompe a battuta 367, dopo aver superato la dimensione abituale di un movimento completo, in una maniera che ha una sua affascinante e strana naturalezza, come se lì dove è giunto il discorso lo si potesse tralasciare.


Mendelssohn fu l’artefice della riscoperta di Bach, e anche della “scoperta” della sua musica per violino solo.

È grazie a Mendelssohn se nel 1840, ben più di un secolo dopo che era stata scritta e a decenni dalla pubblicazione, si ha finalmente la prima esecuzione della Ciaccona grazie all’idea di aggiungere una parte di pianoforte a quella del violino, una volta capito che, abituati ad essere sempre accompagnati, a solo com’è scritta i violinisti non l’avrebbero suonata mai. Il violino ha un’indole protagonista, ma per lui solo non significa da solo. Semmai, solista: al centro dell’attenzione, con tutti al suo servizio. Bach toglie al violino il sostegno di un accompagnamento, e rende plurale la sua voce con un sortilegio della scrittura che vince il limite che il violino ha di poterne produrre una sola. Non si può capire la ritrosia dei violinisti, ma la si può spiegare.

Alla Ciaccona si interessano prima i pianisti: Mendelssohn, che nell’esecuzione di cui si è detto sedeva al pianoforte, Schumann, che era presente e ne fu così conquistato da decidere di scrivere una parte di pianoforte per l’intera raccolta delle Sonate e Partite. E Brahms, che anni dopo decide di trasportare la Ciaccona sul pianoforte - lo strumento emblema della solitudine - in una versione che con due semplici colpi di genio, la limitazione all’esecuzione con la sola mano sinistra e la trasposizione un’ottava più in basso, è fedele e originale al tempo stesso.

La Ciaccona non è un’opera né giovanile né senile, ma questa versione racchiude simbolicamente questi estremi: è, secondo alcuni, un pezzo funebre in memoria della prima moglie Maria Barbara, ed è in questa versione che nasce nella coscienza degli ascoltatori. Si dovrà attendere il Novecento inoltrato per avere esecuzioni non accompagnate della musica di Bach per violino solo.


Nel primo concerto avevamo ascoltato la prima composizione conosciuta di Brahms dedicata al violino e pianoforte, lo Scherzo contenuto in quella Sonata collettiva scritta da Schumann, Dietrich e Brahms in onore dell’amico Joachim. Di quella Sonata Schumann aveva scritto due movimenti, l’Intermezzo e il Finale; subito dopo averne fatto omaggio all’amico decise di scriverne altri due, a completare una Sonata tutta propria che sarà la sua ultima composizione. La Sonata è breve, di un’intensità accecante, estrema, perfino violenta nelle rovine dei movimenti esterni; semplice e spontanea, da far pensare ad una pagina scritta in tutt’altra epoca giovanile e piena di felicità, nel meraviglioso Intermezzo. L’ultima parola di Schumann è insieme rabbiosa come se dolcezza non esistesse, e tenera come non esistesse violenza.

Brahms e Clara Schumann non inclusero la Sonata nell’edizione delle opere complete e si dovette attendere il 1956 per vederla pubblicata. Stesso destino ebbe il Concerto per violino; perduto, fu ritrovato in circostanze da libro giallo dalle nipoti di Joseph Joachim, Jelly d’Arányi, dedicataria della Tzigane di Ravel, e Adila Fachiri, anch’essa un’importante violinista, che in una seduta spiritica ricevettero da Brahms la notizia della sua esistenza e l’invito a cercarlo, e in una seconda, da Joachim, l’indicazione della sua ubicazione in una Biblioteca di Berlino. Concerto e Sonata hanno molto in comune - anche nella fisionomia: un’intera pagina di scale velocissime, ad esempio, nei rispettivi ultimi movimenti -, e costituiscono l’addio all’arte e alla vita nel segno del violino da parte di un autore la cui vicenda è tutta legata al pianoforte.


La composizione che chiude programma e ciclo è la seconda delle due Sonate op.120, scritte per il clarinetto e riscritte per il violino. È una composizione ultima - il catalogo di Brahms arriverà a 122, ma l’ultimo numero fu pubblicato postumo dall’editore, che fece valere i propri diritti testamentari sul materiale rimasto alla morte - ma non estrema, in nessun senso. 

Non sempre, in queste note, ho voluto parlare delle composizioni che abbiamo scelto ed eseguito. Più che altro, mi sono perso ad inseguire idee e considerazioni generali, sicuro che, come dev’essere sempre, se saremmo stati capaci di non tradirla, la musica si sarebbe spiegata da sé.

Riguardo questa Sonata, nemmeno volessi saprei come descriverla, se non come luce e non come musica: calda e confortante, luminosa senza essere accecante. In essa non saprei trovare nessun segno di una fine imminente né di un riconquistato candore infantile, come succede qualche volta ai vecchi. C’è confidenza assoluta e se proprio dovessi direi che è una di quelle composizioni che si vorrebbero suonare sempre, e che hanno un effetto benefico.


Le parole estreme ci appaiono significative sia quando mostrano i caratteri della stagione cui appartengono, sia quando la contraddicono, e non è forse che una nostra suggestione, a cui ci permettiamo di indulgere.

Ultime e prime, racchiudono le nostre vite.


Fulvio Luciani