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Petrassi, Donatoni, Solbiati

note per il CD Stradivarius 33341


Uno dei riti più ingrati della musica contemporanea è quello delle note dell’Autore. Si tratta, di solito, di occasioni mancate, pur con le intenzioni più lodevoli: l’Autore fornisce notizie minuziose sulla forma, le ragioni di ogni scelta, le suggestioni che hanno influito sull’atto creativo, in un’ansia di spiegare, di chiarire, di dar conto di ogni particolare, che è conseguenza della forte necessità dell’arte musicale contemporanea “di avanguardia” - o sarebbe meglio dire, senza vergogna, “di tradizione”? - di trovare la propria ragione d’essere nel rinnovamento di se stessa. Tale impegno assume una forte connotazione etica, che avverte il bisogno di spiegare le proprie ragioni.

Tante informazioni spesso non aiutano l’ascolto e vien fatto di pensare a quale impressione ne avremmo altrimenti ricavato. Tuttavia quelle parole ci aiutano a guadagnare un piccolo vantaggio prospettico, quasi ci affacciassimo all’indietro dal futuro che l’autore ha conquistato.

Siamo abituati a guardare al passato, ci è necessario: il nostro presente è in larga misura costituito dalla presenza viva e influente del passato. Per noi l’arte è idealmente pura, senza compromessi né commistioni commerciali, come l’arte del passato, la quale, però, così ci appare solo per essere stata spogliata dal tempo. L’aspirazione alla purezza si realizza nella ricerca, tanto più questa manifesta le proprie ragioni. Ricerca e sperimentazione sono però requisiti inattuali dell’oggetto artistico musicale. L’attualità, oggi, si realizza nelle contaminazioni con altri generi (jazz, pop, rock, tradizione popolare) nel tentativo di ricucire lo strappo con la fascia più larga degli ascoltatori.




Nell’area di questa avanguardia “inattuale” si colloca il II Quartetto con Lied di Alessandro Solbiati, nato a Busto Arsizio nel 1956, allievo di Franco Donatoni e Sandro Gorli, e docente presso il Conservatorio di Bologna. Scritto nel 1991 su commissione del Comune di Bologna, è stato eseguito alla Großer Saal del Mozarteum di Salisburgo dal Quartetto Paolo Borciani, cui è dedicato, e dalla voce bianca di Aurora Bisanti, nel 1992, in occasione della Settimana della Musica Contemporanea delle Città di Mozart.

Il quartetto contiene un riferimento mozartiano nella sezione finale Calmo, interiore dove una voce bianca canta sul testo della prima strofa del lied K 596 di Mozart su testo di Ch.A. Overbeck “Sehnsucht nach dem Frühling” (Nostalgia di primavera) -

Komm, lieber Mai, und mache

Die Bäume wieder grün,

Und laß mir an dem Bache

Die kleinen Veilchen blühn!

(Vieni, dolce maggio, e fai

rinverdire ancora gli alberi

e fiorire per me

le violette lungo il ruscello)

e recita una frase della lettera a Padre Martini del 1776 - Ah, quante cose che avrei a dirgli! [sic].

Il quartetto è articolato in nove sezioni, quasi nove movimenti, che si succedono senza interruzione. Nel primo Dal nulla, vivo  si decidono le sorti formali dell’intera composizione. Inizia con tremoli evanescenti di tutti gli strumenti, in pianissimo, che, lentamente, con ampio respiro, mentre crescono di intensità, sottraggono singole note tenute al totale cromatico polarizzato iniziale, note che assumono progressivamente una qualche valenza melodica. Questo procedimento si determina da sé, affidato alle relazioni che il materiale musicale crea al suo interno, e prosegue fino a quando, per la prima volta, si renderebbe necessario ripetere parte del cammino già percorso. Tale ripetizione viene impedita dal pizzicato fortissimo di I violino e viola che si sostituisce con violenza alla prima nota tenuta espulsa dal tremolo iniziale. A questo punto, che costituisce la chiave di volta del primo movimento, le note tenute prodotte dal materiale musicale sono otto mentre i tremoli detengono ancora le quattro rimanenti.

I movimenti seguenti presenteranno alternativamente il principio archetipo dell’allegro, e dell’adagio, immaginati come principi fondamentali di moto e di stasi. Si succederanno così Presto, Assorto, Presto, Adagio, quattro Danze, Calmo (Corale) e Profondamente agitato prima del conclusivo Calmo, interiore. Il materiale musicale degli “allegri” sarà generato dall’armonia delle otto note tenute mentre quello degli “adagi” sarà generato dall’armonia delle rimanenti quattro note tremolate. Anche la durata dei singoli movimenti proviene dal rapporto autodeterminatosi all’interno del primo movimento. La prima parte, fino al pizzicato, dura tre volte la seguente e questo rapporto di 3:1 sarà conservato fino alla fine. Il primo allegro dura quanto quest’ultima (1:3), e così il primo adagio. Il secondo allegro e il secondo adagio raddoppiano di durata (2:3), l’allegro (le quattro Danze) e l’adagio seguenti aumentano ancora di un’unità (3:3) mentre il movimento seguente, Profondamente agitato, fuori da questo schema, si occupa di raccogliere e scaricare tutte le energie espresse nei movimenti precedenti per permettere l’approdo al lied conclusivo.

Ciò riguarda, per così dire, la geografia della composizione che appare chiusa alle estremità da due zone di staticità ben diversamente intesa, la prima massimamente turbolenta (tremoli) che determina le sorti di tutto ciò che seguirà in una specie di genesi manifesta dei diversi materiali, la seconda così apertamente pacificata da essere addirittura occupata dal canto.

I movimenti centrali, nonostante il progetto appaia molto determinato, non sono monolitici e rigidamente coerenti ma, anzi, seguono vicende che li portano ad essere liberamente articolati al loro interno e conseguenti l’uno all’altro. Il primo Presto e l’Assorto - la prima comparsa dei due archetipi, la più breve - presentano le due tipologie più estreme: il disordine fecondo di ritmi e modi di emissione sovrapposti e disparati contro l’ordine glaciale delle note tenute e omoritmiche. Nel Presto seguente le note tenute che provengono dall’Assorto sono avvolte in mulinelli sabbiosi di tremoli, armonici e note eseguite senza pressione; entrambi gli elementi lasciano il passo a pizzicati molto ritmici che si trasformano in accordi di quattro note, di scomodissima esecuzione, prima di esaurire il loro impulso e scomparire nei mulinelli iniziali. L’Adagio conquista poco per volta ai suoni reali un grumo di armonici, riesce ad organizzarli fino a isolare quattro frasi in ottava che ripiegano su trilli tenuti, in accompagnamento a due brevi recitativi della viola che portano alle Danze. Le quattro Danze sono ognuna leggermente più spedita della precedente; la quarta, la più caratteristica, mima un complesso rock, con basso e chitarre e prepara con un crescendo elettrico lo scoppio del Calmo (Corale). Nel Calmo (Corale) il corale viene eseguito molto piano da viola e cello e i due violini si rincorrono in figure velocissime e taglienti. Mentre il corale progressivamente acquista evidenza, i violini perdono vigore e aggressività, la loro figurazione, raddolcita e legata, inizia a circolare in frammenti fra tutti gli strumenti fino a mutarsi in una cadenza sommessa del primo violino, quasi coperta dagli altri. La cadenza si propaga a tutto il quartetto mentre il corale continua a salire di tono fino ad interrompersi bruscamente su un mi armonico del cello, piano, che rimane a lungo nell’aria, passando impercettibile tra tutti gli strumenti. Questo mi tenuto, che indica il passaggio al Profondamente agitato, segna il punto culminante dell’opera e trova il proprio modello ideale in un passo analogo del quartetto di Franco Donatoni “The heart’s eye”. Dapprima solo, nel silenzio, poi avvolto in un pulviscolo di nevrotiche figurazioni col legno battuto, tremoli, saltelloni della viola e del cello, balzi acrobatici e ruvidi del primo violino, sempre più violenti, fino a che tutti gli strumenti vi convergono, doloroso e lunghissimo, teso fino al limite del sopportabile, risolve finalmente la propria tensione a fa - una vera e propria cadenza! - avviando così l’ultima sezione Calmo, interiore coronamento di tutta l’architettura dell’opera. Scritta in origine per quartetto, solo in seguito vi è stata aggiunta la voce che altro non fa se non rendere esplicito il canto distribuito nelle singole parti degli strumenti. Nel canto si impersona la voce di Mozart che invoca un “caro Maggio” che non tornerà (il lied è del 1791, l’anno della morte) così che il gesto della risoluzione a fa assume il valore simbolico e quasi teatrale di una resa, con il suo corredo di nostalgia e di rimpianti.




Il quartetto “The heart’s eye” fu commissionato a Franco Donatoni dal Quartetto Italiano che ne è dedicatario ma, per le tristi vicende che ne hanno causato lo scioglimento, non poté darne la prima esecuzione.

Il legame che unisce l’autore ai dedicatari è però ben più stretto e interessante dell’occasione contingente di una commissione. Questa suggeriva alcune particolarità, prima fra tutte la presenza di un intervento solistico per ogni strumento, una cadenza, come già era avvenuto ne “I semi di Gramsci” di Bussotti, che affermasse l’indipendenza e l’individualità di ogni singola voce, capace di assumersi l’onere di guidare il complesso pur nella assoluta identità - non uniformità - dell’intenzione. E’ questa dell’indipendenza dei singoli, così come della parità dei ruoli, affrancati, per quanto consentito dal repertorio, dalla servile sudditanza al primo violino (o, al meglio, all’asse primo violino- violoncello), una qualità sempre presente nelle interpretazioni del Quartetto Italiano, probabilmente realizzata compiutamente per la prima volta e tanto importante da imprimere alla storia dell’interpretazione quartettistica una decisa virata. Non è un caso che la Pegreffi, secondo violino del Quartetto Italiano, durante un colloquio preliminare con Donatoni indicasse come immagine ideale ed esauriente del suono del Quartetto Italiano la “Canzona di ringraziamento” dall’op.132 di Beethoven - chi non è grato e non ricorda con emozione quell’interpretazione del Quartetto Italiano? - dove ogni strumento, pure nella assoluta identità ritmica, conserva la propria dignità individuale, non si annulla in un impasto, tanto più quanto maggiormente la scrittura spinge le voci a divaricarsi fino al limite estremo.

Su queste indicazioni ha lavorato Donatoni, coscientemente, scegliendo anzi di adottare la personalità degli interpreti, addirittura le loro movenze strumentali più tipiche, i loro atteggiamenti espressivi più peculiari, a criteri capaci di informare o, addirittura, produrre il materiale musicale. Le cadenze sono il luogo dove più esplicito si manifesta il riferimento ai dedicatari - due esempi; la cadenza volitiva del II violino e quella intensamente umana del cello. Qualcosa più di una dedica, tanto più affascinante per chi, come noi, è cresciuto con negli occhi l’immagine del Quartetto Italiano e riesce quindi a riconoscere ognuno di questi elementi, anche quelli che sono scivolati nella musica senza coscienza, in un gioco seducente di suggestioni che si rincorrono all’infinito.

Tanto ricchi e affascinanti sono i motivi di ispirazione, tanto geometrica appare la forma. Il quartetto è scritto a partire dal centro, dalle due battute centrali che contengono i nomi dei dedicatari, tradotti in musica secondo un codice liberamente creato. L’organismo si estende verso gli estremi nelle due direzioni, una positiva che corre verso la conclusione, una negativa, che risale verso l’inizio, in senso contrario al senso di esecuzione. Le due metà sono perfettamente simmetriche e constano di 11 pannelli, o frammenti, per parte, di durata decrescente, che coincidono con il respiro musicale dell’opera. I pannelli centrali, che, schiena contro schiena costituiscono il nucleo centrale dell’opera, i primi ad essere scritti, durano 22 battute, i pannelli seguenti ne durano 2 in meno e così via a decrescere di 2 battute per volta fino ai pannelli estremi, gli ultimi ad essere scritti, che durano, appunto, 2 battute. In totale, quindi, 22 pannelli, come 22 sono le battute che costituiscono i 2 pannelli centrali. Ogni pannello è in relazione col cugino della direzione opposta col quale interagisce nel processo compositivo, manipolandolo ed essendone manipolato, cosicché, come ci dice Donatoni, «il positivo manipola il negativo e viceversa». Manipola nel senso che la relazione che intercorre tra i materiali delle due parti non prevede alcun processo di sviluppo bensì la crescita a partire da un frammento - centrale - per mutazione e giustapposizione.

Anche la posizione delle cadenze è perfettamente simmetrica, al quarto e al sesto posto dei due percorsi, prima la coppia I violino/cello, poi la coppia viola/II violino, con una inversione geografica della propria posizione quartettistica: seguendo l’ordine di esecuzione, le voci interne (II violino e viola) occupano, con le loro cadenze, le posizioni esterne. Non basta, anche le indicazioni dei metronomi sono simmetriche: tralasciando le cadenze, dove il passo è determinato dalla volontà dello strumento emergente, in ogni direzione compaiono tre diverse velocità e ognuna di queste si riferisce a 2 pannelli, con l’unica eccezione dei due pannelli conclusivi la direzione positiva, che proseguono col passo del pannello precedente, diversamente dai cugini della direzione negativa. Ho il sospetto, però, che si tratti di una dimenticanza maliziosa, affine al dispetto, rivolta a chi volesse stabilire relazioni certe tra ogni singolo particolare della partitura, ciò che probabilmente è possibile ma certo non aiuta ad avvicinare l’essenza di questa musica. E’, forse, il rovescio della medaglia dell’atteggiamento compositivo di Donatoni il quale sostiene la necessità di esercitare sempre la propria volontà creatrice ma non per questo dimentica di giocare. Del resto, i numeri indicati (49, 74 e 99) non esistono su nessun metronomo di questa terra, sono graduati in maniera regolare, aggiungendo 25 al precedente (49+25=74+25=99), sommati danno 222, cioè tre volte 2 (ricordate? tre velocità che compaiono 2 volte ognuna, non ci fosse quell’eccezione) ma anche, più semplicemente, 6, cioè 2x3, così come 6 si ottiene sommando tutte le cifre che compongono queste indicazioni, come si fa quando si vuole trovare il proprio numero personale dalla data di nascita, 4+9+7+4+9+9=42, 4+2=6 .

Tutto questo non determina, all’ascolto, una struttura rigida. Il quartetto non mostra per nulla di essere perfettamente simmetrico ma anzi segue un percorso narrativo che poco per volta assume connotati sempre più riconoscibili. Il cuore della composizione è occupato da quello che all’ascolto risulta essere un ampio adagio. Il punto culminante è situato all’incirca in sezione aurea (uso volutamente questa approssimazione) quando, alla conclusione della sua cadenza, il violoncello si interrompe su un si tenuto che monta di intensità, mentre gli strumenti a braccio producono un effetto di vetri infranti, fino a che tutti suonano fortissimo intorno a si, creando un pulviscolo intorno a questa nota, una specie di nebulosa di suono, informe ma in movimento. Con un vero colpo di teatro la nebulosa si muta in un disegno tra lo tzigano e l’arabo del primo violino, accompagnato in maniera tradizionalissima, ironico e impertinente ma anche dinoccolato, che, prendendosi sempre più sul serio, porta alla cadenza del secondo violino. Basti questo esempio a descrivere gli umori mutevoli di questa musica, che si serve di un materiale estremamente povero di suggestioni timbriche e sostanzialmente uniforme, eppure capace di molti sapori e suggestioni.




Il Quartetto (1958) di Goffredo Petrassi rappresenta un’opera di transizione. Con il Quartetto, Petrassi avvicina la tecnica seriale, la cui affermazione, tanto era stata aggressiva, aveva vissuto come una violenza. “Chi non ha vissuto quel momento non può capire quanto era forte e determinante per alcuni diventare musicisti dodecafonici, tanto che quando ci fu il congresso dodecafonico di Milano, organizzato da Malipiero e Dallapiccola, io ci andai come un parente povero, come un escluso dai lavori, perché loro erano i depositari di una verità e io non la possedevo ancora. Provai la sensazione di essermi smarrito”. Pur servendosene, Petrassi continua a mantenere una certa distanza verso la dodecafonia, una tecnica, non un mezzo di espressione, frutto di condizioni storiche, “etiche e poetiche”  alle quali si sente estraneo. Non accetta gli inviti provenienti da Darmstadt - “rifiutai di fare Daniele nella fossa dei leoni” - e aspetta che le turbolente reazioni che si succedono - l’atonalità alla tonalità, la dodecafonia alla atonalità, l’alea alla dodecafonia - producano “qualcosa di solido e di definitivo, di pacificato”. “C’è stato un momento del mio percorso in cui mi sono interrogato sui modi e sulla possibilità di mutare il mio modo di concepire la musica. Questo è avvenuto nel 1957-58 ed è con il Quartetto che ho iniziato questa revisione del mio modo di praticare la musica. Il Quartetto presenta delle curiosità: comincia in modo abbastanza tradizionale e poi piano piano lascia i modi tradizionali per avventurarsi verso altre regioni. Di lì è cominciato questo mio senso di liberazione e parallelamente si è sviluppata in me la coscienza di poter procedere verso quei luoghi che prima mi inibivo pensando: «Hic sunt leones»”.

Il Quartetto di Petrassi è strutturato in un unico movimento articolato in cinque episodi che si succedono senza soluzione di continuità. Il primo, Allegretto comodo, esordisce con un tema costruito sugli intervalli di tritono e terza maggiore, dal tono domestico. Con i suoi periodici ritorni, questo tema incasella episodi nei quali viene frantumato in figure concitate, placate da una specie di estatico e stagnante carillon. Il secondo, un poco allegretto, è bipartito. La prima parte presenta un tema pizzicato del secondo violino, costruito su un intervallo di sesta minore (rivolto della terza maggiore del primo tema), che circola per imitazione tra tutti gli strumenti, in un ciclo di tre battute di 7/8 diversamente articolate al loro interno (2-2-3; 3-2-2; 2-3-2) ripetuto dieci volte. Un piccolo recitativo della viola, col legno battuto, introduce una danza in tempo di 6/8 che subito aumenta di velocità e perde così il suo carattere. L’esplosione di un grumo di suono, costruito in due parti a specchio, aperte a libro, occupa il centro di questa seconda parte che si chiude col ritorno, preceduto da un accenno di marcetta grottesca del secondo violino, della danza iniziale, eseguita all’inverso. Il terzo, Presto, esordisce con un magma di pizzicati, prosegue, sempre più rallentato, incorporando frammenti di figure melodiche che portano, dopo un motto di accordi isolati, ad una specie di cornamusa del primo violino e della viola; conclude un piccolo divertimento. Altri accordi isolati introducono il Vigoroso; dopo due strofe del quartetto tutto, la viola si assume un lungo passo solistico più tardi ripreso dagli altri strumenti. Una breve stasi su accordi ribollenti porta ad uno straordinario passo dove gli strumenti si rincorrono in arditissime linee lanciate in tutte le direzioni che si diradano progressivamente e, dopo una lunghissima pausa, portano all’Adagio. Nell’Adagio, il materiale si organizza poco per volta fino a superare l’iniziale stagnazione e, in tempo più andante, produce un episodio di straordinario fascino in cui ogni linea canta sommessa e dolcissima ad imitazione del I violino, che aveva aperto la strada, in un moto circolare e ipnotico. Dopo un improvviso collasso di queste linee, due frasi quasi recitate della viola precedono i due severi pizzicati conclusivi.

Del Quartetto, dell’adozione della tecnica seriale, del suo uso, personale, scevro di ogni carattere normativo e obbligatorio, attento alle relazioni intervallari, libero nell’applicazione tanto che si configura più come un sussidio che non un’adozione, molto si è scritto. Si tratta di una di quelle opere che, segnando un cambiamento, una svolta, indicano una strada cui molti, percorrendola o lasciandola, faranno comunque riferimento. Ciò che rappresenta un esempio è il coraggio nell’affermare la propria identità culturale, nell’accogliervi ciò che vi è estraneo solo a condizione di ridurlo alle proprie istanze “etiche e poetiche”. Ma le ragioni di queste scelte non risiedono in speculazioni intellettuali, hanno piuttosto il sapore della necessità personale, manifesta ben prima di poter essere espressa a parole.

Il riferimento elettivo di quest’opera è ai i quartetti di Bartók ma non è più che un riferimento, essendo del tutto personale il profumo che emana, il sapore di certe immagini - il carillon della viola nell’Allegretto comodo, l’accenno di marcetta del secondo violino nell’un poco allegretto, la disincantata irruenza nel lungo passo della viola nel Vigoroso, la grazia estatica dell’Adagio conclusivo. Sarebbe interessante cercare di riconoscere l’influenza di questa composizione nei quartetti di Donatoni e Solbiati, contenuti in questo disco, l’influenza non delle tecniche di scrittura ma della più intima essenza della musica, quella che più direttamente parla all’uomo e che opera fuori da ogni tentativo di analisi. Per questo non vi è che l’ascolto, la ragione unica di ogni musica; le parole possono spiegarne una parte così minima che, di fronte all’esperienza entusiasmante del fare musica, ancor più scolorano. La musica contemporanea ha intorno a sé molte parole e molte ne abbiamo spese anche qui. Ma le abbiamo spese con disincanto, un po’ per forza. Meglio suonare e ascoltare.


Fulvio Luciani, 2.XI.1994