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Romantico Bach. Note di lavoro

dai booklet della serie di CD “romantico Bach live” registrati durante i concerti tenuti insieme a Massimiliano Motterle per laVerdi, dal settembre 2014 al marzo 2015




note di lavoro: carte in tavola

dal booklet del CD “romantico Bach live 1”


Guardare al passato è un’attitudine della nostra cultura. Nel passato si cercano radici e legittimazione, e al passato si chiedono risposte. Spesso, però, più che l’atto in sé conta la maniera di rivolgere lo sguardo, che è a misura delle domande, così che la realtà è più nell’occhio che osserva che nell’oggetto della sua osservazione.


Bach è un patrimonio fondante della nostra cultura, ma non è scontato osservare che il momento in cui ha iniziato ad esercitare la sua enorme influenza è molto posteriore alla sua vita. È stato a partire da un momento preciso, da un’esecuzione della Passione secondo Matteo diretta da Mendelssohn a Berlino nel 1829, quasi ottant’anni dopo la morte. Fino ad allora Bach era sostanzialmente dimenticato, noto agli studiosi ma senza un posto nella coscienza musicale dell’epoca.


Mendelssohn fu decisivo anche per la conoscenza delle musiche per violino solo, i “Sei Solo a Violino senza Basso accompagnato” che oggi conosciamo come Sonate e Partite. La raccolta porta la data del 1720, durante il periodo trascorso alla corte calvinista di Cöthen, e fu pubblicata già nel 1802 in due diverse edizioni, ma per lungo tempo fu considerata non più che un repertorio di esercizi e i violinisti non ci si dedicarono. Si dovette attendere fino al 1840, ben più di un secolo dopo la composizione e decenni dopo la pubblicazione, per avere un’esecuzione della sola Ciaccona, oggi una delle pagine capitali dell’intera storia della musica, dal violinista Ferdinand David, in un concerto dedicato a Bach e Händel. David fu convinto da Mendelssohn solo con la lusinga di una parte di pianoforte a sostegno, che rendeva la Ciaccona un pezzo da concerto più accettabile alla mentalità di un violinista della sua epoca. Mendelssohn sedette al pianoforte, ed era presente anche Schumann, a cui la cosa piacque tanto da decidere di scrivere una parte di pianoforte per l’intera raccolta, che pubblicò nel 1854. Il nostro ciclo è tutto costruito intorno a questa sua versione.


Scrivere un accompagnamento per dei pezzi per strumento solo sembra una importuna sovrascrittura di un testo invece perfetto. Ma l’intento di Schumann è unicamente di leggere queste musiche rifiutate, e di permettere che siano ascoltate. Così, il suo intervento - com’era stato anche per Mendelssohn - si limita a dare al pianoforte quel che serve a sciogliere i sottintesi armonici e contrappuntistici, come se stesse annotando i suoi commenti al margine della pagina. L’effetto è straordinariamente significativo: con poco più di una semplice armonizzazione noi ascoltiamo queste musiche così come le sentiva lui stesso, come se ci stesse guidando suonando con noi. Io la trovo un’esperienza emozionante. Non sufficiente a smuovere i violinisti, però, che ancora non presero a suonare le Sonate e Partite.


Dopo venne Brahms. Nel 1877 trascrisse la Ciaccona per pianoforte, al numero 5 dei suoi studi per pianoforte, quasi senza intervenire, eccezion fatta per due autentici colpi di genio. Il primo è di abbassare tutto di un’ottava, ciò che conferisce all’esecuzione un colore scuro e denso, del tutto coerente al carattere che conosciamo alla Ciaccona. Il secondo è di prescrivere l’esecuzione per la sola mano sinistra, una limitazione che spoglia il pianista dei suoi mezzi e lo mette in una condizione di fragilità simile a quella in cui è il violinista causa le difficoltà tecniche cui deve far fronte, dunque in una condizione umana corrispondente e che ha il connotato dell’autenticità.

Ma quel che io trovo più significativo è l’idea stessa di trasferire la Ciaccona al pianoforte. Ciò che guida Brahms è, io credo, una sottile lettura della psicologia dei due strumenti: del violino, che è strumento abituato ad avere un apparato al proprio servizio e qui ne è drasticamente privato, e del pianoforte, che nel corso del tempo ha conquistato un’identità proprio nell’essere solo. È proprio la lettura al pianoforte, che paradossalmente viene prima della lettura allo strumento autentico, ad offrire, con Brahms ma anche con altri, una sponda ad un’impresa apparentemente non affrontabile, come se al violino fosse necessario un esempio da seguire prima di addentrarsi in un territorio che psicologicamente è al di fuori del proprio controllo. Solo a fine Ottocento Joseph Joachim comincerà timidamente a suonare Bach a solo, mentre per molto altro tempo ancora continuerà l’uso di suonarlo accompagnato dal pianoforte, come farà, ad esempio, Fritz Kreisler.


Potrà urtare che la nostra percezione di queste musiche sia segnata da queste esperienze tutte ottocentesche e tutte legate al pianoforte, ma è ben chiaro che la nascita segna la vita, e a distogliere lo sguardo dalle circostanze in cui è avvenuta e dalle loro conseguenze non si fa altro che distorcere la realtà. È ben da qui che inizia la presenza delle Sonate e Partite nella nostra coscienza, anche se è una nozione che abbiamo rimosso. Così, abbiamo deciso di intraprendere un’operazione tralasciata da tutti, quella di conoscere questa straordinaria versione di Schumann, per cercare di misurare quanto di ciò che diamo per evidente della fisionomia e del contenuto di queste musiche e delle soluzioni di retorica interpretativa che adottiamo per interpretarle, non venga invece da qui e non sia il prodotto di una scelta individuale alla quale ancor oggi, per la pregnanza che ha, non sappiamo sottrarci. La nostra è una ricerca della fonte, non solo nel testo, che come abbiamo detto “appartiene” ad un’epoca ben successiva a quella in cui è stato steso, ma nel primo atto vitale che compie, nella sua prima percezione, presi per mano da uno dei più grandi geni visionari della storia della cultura musicale.

La realtà non è nelle cose ma in come le coglie lo sguardo che le osserva, ed esiste solo a condizione che quello sguardo vi si posi. Lo sguardo su Bach si posa nel secolo successivo al suo, un tempo enorme dopo la sua vita. In un certo senso, Bach è dunque un compositore dell’Ottocento, e Mendelssohn, Schumann e Brahms ci sono stati necessari a conoscerlo, tanto da far dubitare che sia possibile, oggi, consciamente o meno, saper prescindere dalle loro esperienze.

Per chiudere il cerchio dovremmo risvegliare la memoria di quel primo ascolto, per poter poi rivolgere lo sguardo direttamente e senza intermediari a questa straordinaria costellazione di opere e al loro autore. È, io credo, un passaggio che la nostra cultura non ha ancora del tutto compiuto.


Serviva mettere in tavola le carte per il nostro gioco, ed oggi ci siamo dedicati a questo. Mancano tante cose da dire, riguardo la scelta di usare sempre il pianoforte anche nelle Sonate per violino e cembalo, che costituiscono il secondo asse su cui si muove il nostro ciclo, o di accostare Bach a musiche anche molto lontane nel tempo e nel linguaggio che per qualche aspetto gli si apparentano e ne costituiscono in un certo senso una lettura. Lo faremo passo passo. Per ora, solo qualche indizio: fino a Mendelssohn Bach era considerato “un parruccone antiquato imbottito di erudizione” - letteralmente fino a Mendelssohn: è lui che lo scrive alla sorella! -, più un matematico che un vero musicista. Poi, l’aspetto combinatorio della sua arte ha iniziato ad esercitare il suo fascino. Nella scelta da Musica Ricercata di Ligeti, il primo brano è scritto su una sola nota, come a sondare le potenzialità della massima costrizione della scrittura, ed è presente un dichiarato omaggio al passato nel brano dedicato a Frescobaldi, un aspetto naturale nella nostra percezione di Bach, a cui si è sempre guardato da un’epoca diversa dalla sua, con l’attrazione che si ha per una cosa estranea e antica. Ne parleremo.




note di lavoro: un’idea fissa

dal booklet del CD “romantico Bach live 2”


Tre dei pezzi in programma sono in si minore, e il quarto è tutto costruito su una sola nota. Di norma si evita di compilare un programma tutto in una tonalità, perché si teme che possa generare noia. La Partita in programma quest’oggi è però così caparbiamente in si minore - talmente in si minore, si potrebbe dire - da offrire un’occasione di riflessione difficile da ignorare.


Partita sta per Suite: semplicemente una successione di danze. Il debito bachiano alla forma di tradizione è tutto qui, nel riferimento all’involucro. Viceversa, la destinazione al violino solo costituisce un fatto senza precedenti.

Violino solo è quasi una contraddizione di termini, perché il violino fatica a realizzare più suoni, com’è necessario fare quando uno strumento è privato di un sostegno o di un sodale. Qualcuno aveva già tentato una scrittura polifonica per il violino - Baltzar, Biber, Strungk, Walther e Westhoff: nomi, a parte Biber, oggi dimenticati - ma non è da queste esperienze che Bach prende le mosse. Se i suoi predecessori ne avevano fatto una questione pratica, da affrontare con ogni mezzo, compreso quello della scordatura - l’accordare il violino in una maniera che renda possibili sovrapposizioni di suoni altrimenti ineseguibili -, Bach sceglie invece di occuparsi della mente dell’ascoltatore, cui dà ad intendere, grazie a un sortilegio della scrittura, una polifonia a 2, 3, perfino 4 voci, che, più che essere reale, ha la capacità di formarsi nella mente dell’ascoltatore.

Ognuna delle Sonate e Partite ha una sua particolarità. Questa Partita ha quella di far seguire ad ogni danza un Double, una ripetizione variata. Così, l’esecuzione consta di otto movimenti, i primi quattro disposti in un rapporto tale da far avvertire un logico, proporzionato e inesorabile aumento della velocità, quasi la sensazione di una caduta verso il cuore espressivo costituito dalla Sarabanda. L’effetto di quest’ultima, poi, è protratto da Schumann col replicarla al pianoforte nel Double, così che la si ascolti una seconda volta riflessa nella sua variazione.

È caratteristica della Suite d’essere una successione di danze tutte nella stessa tonalità. Se di norma è caratteristica che non si nota, in questa Partita è invece centrale e ha un valore tangibile. A contare non è più la semplice successione delle danze ma quella costruzione organica e fortemente correlata che sono chiamate a formare, che trova nella fissità tonale il suo criterio unificante e il suo punto di equilibrio.


La conoscenza di Bach segnò una svolta nella produzione di Mozart. L’occasione fu offerta dalla frequentazione a partire dal 1782 “ogni domenica, alle dodici in punto” del salotto musicale del Barone Gottfried van Swieten, un diplomatico austriaco mecenate di musicisti e musicista egli stesso, che aveva collezionato le opere di Bach e di Händel durante la sua missione come ambasciatore alla corte di Federico II a Berlino.

Nel 1786 van Swieten diede vita alla Gesellschaft der associierten Cavaliers, un sodalizio di 25 membri dell’aristocrazia viennese dedito all’esecuzione delle opere di Bach e Händel, e Mozart, nel momento in cui la sua carriera declinava, si prese l’impegno di dirigerla.

L’Adagio in si minore KV 540 fu scritto nel 1788, dunque in piena scoperta bachiana, ma, come si è detto, non è questa la chiave della sua inclusione nel nostro ciclo. Del resto, il contrappunto, la radice logica del sistema di scrittura bachiano e dell’epoca barocca, era stato presente fin da subito nella scrittura mozartiana, e Glenn Gould, che incise tutte le Sonate per pianoforte di Mozart nonostante ne dicesse peste e corna, notava nelle composizioni giovanili “una purezza contrappuntistica e una ricercatezza di registri che non sono più state raggiunte nelle opere successive”.

La chiave della nostra scelta è ancora una volta nella tonalità. Questo Adagio mostra una faccia pensosa del si minore, pervasa non dal senso del canto ma da quello della parola discorsiva, pronunciata tra sé e sé. La semplicissima formula d’apertura - più bella, più ricca di sottintesi, quasi più affascinante di quella, che ha fatto storia, del Tristano -, stabilisce in un solo tratto un intero mondo di relazioni, e torna più e più volte, in una circolarità ipnotica che fa perdere la cognizione di dove si è, fino alla coda, in cui riluce un sorriso di una dolcezza così dolorosa, di una fiducia così disperata, che si sarebbe tentati di dire schubertiana.


La musica dell’estone Arvo Pärt è conosciuta per il suo sapore arcaico e per la sua atmosfera quasi onirica di sospensione del tempo.

Il sapore arcaico sarebbe già motivo di inclusione nel nostro ciclo, per analogia con l’impressione che la musica di Bach poteva suscitare nel momento in cui iniziava ad essere conosciuta, durante l’Ottocento. Bach ha però un ruolo non solo suggestivo nella formazione del linguaggio così personale di Pärt, che prende le mosse a partire dalla dodecafonia, in un ambiente in cui Šostakovič aveva composto in stile bachiano i suoi 24 Preludi e Fughe per pianoforte op.87, il cui contenuto è il canto popolare russo, e Glenn Gould aveva offerto Bach a quella generazione di musicisti sovietici come garante per i suoi esperimenti, col mostrarne il radicamento nella tradizione polifonica antica e la linea di continuità che lo lega alla Scuola di Vienna.

Presto, però, Pärt, si rese conto che i mezzi della dodecafonia non gli erano sufficienti e, alla ricerca di una nuova spontaneità, cercò di imparare a condurre una sola linea, “una monodia assoluta, una nuda voce da cui tutto ha origine”, cantando e suonando il gregoriano da un Liber usualis proveniente da una piccola chiesa di Tallin.

La chiave di volta della sua evoluzione è stata nella scoperta della necessità di una seconda linea e nella maniera di correlarla al canto: la creazione di uno stile personale chiamato tintinnabuli, dal latino “campanelli”, in cui la seconda voce è costituita da tre suoni che sottolineano continuamente una sola funzione, quella della tonica.

Così, non è il si minore, ma anche Fratres è sorretto da un’idea fissa: la ripetizione ipnotica di strofe illuminate dalla fissità del suono tenuto di la al basso del pianoforte, che risuona immobile fino alla fine del pezzo.


Anche la Sonata per violino e cembalo che chiude il programma è in si minore, un si minore intriso di dolcezza, ben diverso da quello intenso e drammatico dell’Adagio di Mozart e anche da quello ossessivamente reiterato eppure sfuggente e a suo modo inavvertibile della Partita.

Le Sonate per violino e cembalo obbligato furono raccolte a Cöthen, come le Sonate e Partite per violino solo. Cosa vuol dire cembalo obbligato? Vuol dire che la sua parte è scritta nota per nota, e non ne è segnato solo uno scheletro da realizzare al momento dell’esecuzione, com’è sempre nelle Sonate per strumento melodico e basso continuo. Qui, semmai, le voci che cantano sono almeno due, come in una Sonata a tre: il violino e la mano destra del cembalista - tant’è vero che in uno dei manoscritti che ci sono pervenuti il copista indica queste Sonate come “Sechs Trios für Clavier und die Violine” -, e la funzione di sostegno armonico è delegata alla sola mano sinistra, con una ricchezza di mezzi in gioco e una sottigliezza nel loro uso che fa compiere a queste Sonate un balzo verso un’idea di parità tra gli strumenti che è propria della musica da camera che verrà in un’epoca molto successiva.


Forse il fascino della fissità è nella sua ambiguità: com’è nella scultura, che, immobile, si offre all’osservazione, mentre lo sguardo che le si rivolge può farlo da infiniti punti di vista, così che il loro rapporto è addirittura più dinamico di quello che può intercorrere, ad esempio, con l’immagine animata ma solo bidimensionale del cinema.




note di lavoro: raccontare una storia

dal booklet del CD “romantico Bach live 3”


Anni fa un amico, illustre musicista, mi diceva, con l’esagerazione che gli è solita, che se avesse potuto ricominciare da capo si sarebbe dedicato alla pittura e non più alla musica.

Nell’osservare un quadro diceva di avere la sensazione d’esser dinanzi ad una finestra affacciata su un altro mondo, e non valeva la mia obiezione che altrettanto accade con la musica o la letteratura, forse perché un quadro offre l’occasione di un punto di vista, che al mio amico interessava, mentre musica e letteratura richiedono un’immersione.

Ogni tanto qualcuno mi domanda se ho mai composto, e si stupisce quando gli dico di no, che non saprei farlo, scettico della mia risposta, come non fosse credibile che non mi sia mai venuto il prurito di provare a dire una parola mia, e il suonare musica d’altri sia in un certo senso un ripiego.

Mi torna allora alla memoria un’esperienza adolescenziale, i cui contorni possono apparire al giorno d’oggi talmente sorprendenti da far sembrare il mondo di allora davvero un altro mondo.


Quando ero ragazzo i registratori non c’erano. Già dire “i registratori” è quasi parlare un’altra lingua, oggi che con un telefonino si fa questo ed altro. I registratori, lo dico per i più giovani, erano apparecchi che servivano per registrare i suoni. Non che non esistessero, ne avevano le stazioni radiofoniche e le case discografiche, ma non ce n’erano che fossero a disposizione di tutti.

Il primo che abbe una larga diffusione si chiamava Geloso - magnetofono Geloso, per la precisione -: era della dimensione di una scatola da scarpe e registrava su nastro. Sembrava una meraviglia, e non proprio alla portata di tutti. Del resto, era l’epoca dei mangiadischi, dei filmini super 8 rigorosamente muti, delle cabine telefoniche intrise del fumo di decenni, delle prime Polaroid, macchine fotografiche dal cui addome veniva espulso un foglietto su cui pian piano compariva la foto appena scattata, tutte cose che conservavano una certa dose di meraviglia.

Il primo registratore lo ebbi già in epoca di compact cassette, in cui il nastro era montato in una specie di astuccio che rendeva tutto molto più pratico, ma non ricordo di averlo mai usato per registrarmi. Lo usavo invece per registrare dalla radio, mettendo il registratore, che adesso aveva la dimensione di un volume di enciclopedia, davanti alla radio accesa. La prima cosa che registrai fu un quartetto d’archi, nella calma piatta di un sabato pomeriggio. Ero con mio padre, dovevamo stare in silenzio, ma lui non resistette a non accendersi una sigaretta e anche il rumore dell’accendino rimase registrato.


La prima volta che mi ascoltai fu dunque piuttosto tardi. Successe che un amico appassionato, che si era procurato tutta l’attrezzatura, venne a registrare un concertino da studenti. Ricordo ancora lo stupore: nella mia esecuzione c’era molto di cui non sapevo nulla e che mi colpiva più di quel che sapevo di aver messo con fatica e dopo lunga preparazione. Era una specie di melanconia, che non mi sarei aspettato dal ragazzone sano, fortunato e ottimista che ero.

Così, nella mia ingenuità, cominciai ad osservare, e mi sembrò che la ragione decisiva del fascino del mio celebre maestro fosse non tanto nel suo leggendario rigore ma nella fragilità umanissima che il suo suono lasciava trasparire e che certo non era frutto di uno studio o di un’intenzione cosciente, e cominciai a chiedermi se la bellezza di un libro o di un quadro dipendano dalla bontà del progetto che ne ha guidato la realizzazione o non piuttosto da altro che sia scappato inconsapevolmente dentro a quel progetto.

Il caso dello scrittore mi intrigava, perché pensavo che ciò che lo distingue dalle quelle persone cui pure si dà ascolto con stupore e interesse sia la capacità di raccontare una storia non sua, e immaginavo quanto affascinante potesse essere il mettere in gioco dei personaggi per poi seguirne la vicenda, quasi la si stesse scoprendo nel momento in cui la si sta creando. Provai anche a chiedermi se l’autore possiede e capisce la propria storia più e meglio del suo lettore, e feci lo stesso con la musica le prime volte che potei collaborare con chi le aveva scritte.


Se è vero che la musica narra una vicenda o descrive un’emozione, sarebbe logico aspettarsi che lo faccia coi mezzi più adatti. La polifonia, il linguaggio che Bach usa, è invece un gioco di sovrapposizioni che ha qualcosa del gioco di abilità. Nonostante questo, in Bach, riconosciamo comunque un racconto, che corre sotto a quei giochi combinatori e numerologici come non avesse nulla a che fare con essi, e che appare plasmato e proporzionato con incantevole naturalezza sul suo contenuto.

È in questo, nell’idea di una musica fortemente progettata che all’ascolto suona invece come fosse generata dall’emozione che la pervade, la contiguità ideale tra Bach e Brahms.


Se forma e contenuto coincidono, perché l’uno è nell’altra indissolubilmente, nel caso della musica la forma che vediamo sulla carta non spiega tutto, e viene da pensare che sia in gioco molto di più. Il mio è certamente il punto di vista corporativo di chi suona, ma credo che l’unica analisi  possibile della musica sia nell’esecuzione dal vivo. Non c’è stata analisi capace di rivelare quanto intrisa di umanità sia la Große Fuge beethoveniana prima che qualche quartettista non l’abbia colta sulla propria pelle, forse nemmeno rendendosene del tutto conto, e non l’abbia restituita con la sua esecuzione, e non c’è lettura del testo che possa dar conto di quello straniamento dal tempo che si verifica in certa musica di Schubert.

La straordinaria qualità della scrittura non è la spiegazione della bellezza né della musica di Bach né di quella di Brahms. Se lo fosse, a replicare quei procedimenti si dovrebbe ottenere qualcosa. Ma non è così.




note di lavoro: il telefono senza fili

dal booklet del CD “romantico Bach live 4”


In musica si è inclini a concedere uno speciale credito agli interpreti pieni di fuoco, come se l’accensione anche selvaggia fosse una condizione evidentemente favorevole al manifestarsi dei significati più profondi. Tutto cambia con la musica precedente l’Ottocento, per la quale si sente molto motivata l’esigenza di un approccio storicamente avvertito. In musica la filologia, la ricerca di un’esecuzione autentica, è una disciplina recente, che si è sviluppata solo durante il Novecento, quando una generazione di interpreti si propose di “servire la musica”, di renderla cioè manifesta senza sovrapporre la propria alla volontà dell’autore, espressa dal testo scritto.


La ricerca della verità è una manifestazione di amore, e il feticcio di questa ricerca è stata la scrittura. Una corretta lettura è necessaria. La scrittura ha però dei limiti, poiché è un sistema di segni ben lontano dal poter indirizzare esaurientemente l’atto dell’esecuzione, ed essendo comprensibile solo a condizione di conoscere profondamente il linguaggio e le consuetudini di chi la usa di volta in volta. Non c’è differenza sostanziale nella notazione dei vari generi, ma non c’è musicista che possa muovere da uno all’altro solo a partire dalla pagina scritta: un musicista classico sa leggere tutte le musiche ma non può cogliere tra le righe i sottintesi che valgono in uno specifico ambito. Ho conosciuto il caso di un violinista dell’est europeo, vincitore di un premio al Concorso Paganini molti anni fa, che aveva cercato lavoro nelle orchestrine di violini tradizionali del suo paese e non lo aveva trovato, perché non gli era naturale quel particolare senso del ritmo e non conosceva tutte le inflessioni che avrebbe dovuto possedere come un patrimonio genetico e che non è possibile annotare.

Perfino fatti certi come le indicazioni metronomiche vengono discussi. Un caso noto è quello dei metronomi di Beethoven, sempre molto veloci. L’opinione comune è che Beethoven avesse a disposizione un metronomo difettoso, ma ho sentito Maurizio Pollini raccontare di averlo controllato personalmente e di averlo trovato perfetto ancor oggi. Forse l’indicazione di Beethoven voleva avere un valore suggestivo, con l’intento non di fornire un parametro fisso quanto di provocare una reazione nell’esecutore.


Per meglio leggere la scrittura, per non fidarsi dell’effetto che può avere su di noi ma conoscere l’effetto che mirava ad avere sui suoi contemporanei, ci si è rivolti alla lettura dei trattati, libri scritti per spiegare come fare. Sono miniere di informazioni, ma si tratta di informazioni anch’esse da collocare in un quadro del quale dobbiamo ricostruire i termini di riferimento, valide come sono solo in una specifica area geografica e in uno specifico lasso di tempo di cui fotografano gli usi. Una riprova del loro grado di attendibilità potrebbe venire dall’immaginare come un trattatista potrebbe descrivere oggi una situazione che conosciamo bene. Non mi ritroverei, ad esempio, in una descrizione del Conservatorio della città dove insegno che indicasse un approccio in qualche misura comune - perché so che si fa in molti modi qualche volta inconciliabili -, e mi verrebbe da chiedermi per quale ragione dovrei supporre maggiore omogeneità in un’epoca diversa.


Addirittura l’ascolto diretto, quando possibile, non sempre dirime le questioni. Sulla rete si può ascoltare Mahler che suona su un pianoforte a rulli l’Adagietto della sua Quinta Sinfonia. È un’esecuzione semplice, che manca di quell’estenuatezza cui siamo abituati. Altrettanto, ci sono molte occasioni per ascoltare Bartók al pianoforte, e per apprezzare una maniera di suonare particolarmente dolce e niente affatto percussiva, come si sente sempre dai suoi interpreti. E, per fare un ultimo esempio, ricordo il caso di Debussy che nell’esecuzione di un suo Preludio modifica una pausa in una maniera che ne proporziona la durata in sezione aurea; certamente Debussy lo faceva in maniera inconsapevole, e l’esempio vale a mostrare bene quanto il meccanismo dell’esecuzione non sia del tutto governato dalla lettura del testo, nemmeno se chi legge è l’autore.


Ci sono allora le condizioni contingenti da valutare, come se la conoscenza profonda di un fare artigianale potesse in un certo senso funzionare da guida e svelare significati che si rendono manifesti solo nell’atto pratico del suonare. Per primi ci sono gli strumenti, ma nel loro caso non si può far molto più che scegliere la tipologia - non un pianoforte ma un cembalo, ad esempio - e con questo accontentarsi di un’approssimazione molto grossolana, perché non si può certo sostenere che pianoforti e clavicembali siano tutti uguali. Anche lo strumento esatto suonato all’epoca non è che un’approssimazione, perché certamente oggi non suona come suonava allora. E poi ci sono strumenti vissuti per un solo pezzo: Brahms scrisse le Sonate op.120 per un virtuoso che si era costruito un clarinetto da sé, non Sonate per clarinetto ma per quel clarinetto. Senza parlare degli strumenti ad arco, il cui suono è plasmato da chi li adopera, ragione per cui ogni strumento è il risultato della sua propria personalità e della sua storia, e nella sua assoluta unicità sta il suo fascino e il suo valore. In più, l’esecutore reagisce all’ambiente, e anche un ambiente storico oggi risuona diversamente, non fosse altro che per la qualità molto mutata del silenzio intorno a noi. Mi ha molto impressionato, ne parlo qui per analogia, il racconto di un amico che aveva visitato l’Africa e che mi diceva quanto lì fosse diverso, profondo in una maniera che non sapremmo immaginare, il buio della notte. E che dire dell’abilità esecutiva? È dato per scontato che al giorno d’oggi si suoni mediamente molto meglio che in passato. Dunque, un’esecuzione per essere attendibile dovrebbe anche essere mediocre secondo il metro attuale?


In più, c’è la complicazione della percezione, che è un fatto a cui siamo soggetti in maniera inconsapevole. Mi riferisco a quel fenomeno per cui qualcosa sembra perfettamente naturale in un’epoca e completamente fuori luogo in un’altra. Il passaggio ad un’epoca successiva rivela con evidenza quel che prima nessuno notava, vale per la moda, per la maniera di comportarsi, per i violini falsi così come per i quadri. E vale anche per le esecuzioni di qualsiasi tradizione, anche quelle filologiche, che, come tutte le altre, hanno pian piano acquisito modalità autoreferenziali, stilemi e tic che che le identificano immediatamente. Ad esempio, io trovo molte esecuzioni di oggi estremamente violente, nevrotiche nell’andamento, e ricordo con nostalgia i bei tempi andati, quando il mio maestro raccomandava castità nell’espressione e riposo, valori difficili da spendere in un’epoca adrenalinica come la nostra, in cui tutto ma proprio tutto deve avere energia, naturalmente positiva. Certo, si tratta di una mia impressione, mentre una ricerca storica non può non appoggiarsi a fatti certi e documentati, ma se anche una riproduzione il più possibile esatta non può ragionevolmente aspirare ad essere più che un’approssimazione forse potremmo provare a verificare se è così vero che non siamo più in grado di cogliere la musica del passato per il tramite della sensibilità: potremmo scoprire che, invece, la possediamo assai più di quanto non crediamo.


L’oggetto musicale stabilisce un mondo proprio, con regole e caratteristiche sue, e le contingenze che ho descritto non sono la musica ma solo una sua rappresentazione. La musica è altro, che si manifesta nel luogo e nel momento in cui prende vita e si comunica per altra via, come lo sguardo, che noi crediamo di atteggiare ma in cui chiunque sa leggere il molto che non si vuole dire e il qualcosa che forse non è noto nemmeno a chi quello sguardo ha lanciato. Il tramite della sensibilità offre certamente il fianco ad una critica di soggettività. Ma la sensibilità non è il contrario della cultura e da essa si alimenta.


Noi viviamo in un’epoca meravigliosa, in cui godiamo della musica come di una macchina del tempo, che ci permette di vivere in epoche diverse dalla nostra. In questo ciclo abbiamo a che fare con musiche lontane e illustri - storiche, appunto - per le quali, come dicevo, da tempo si è posto il problema di un’esecuzione autentica; non si poteva evitare di affrontare l’argomento prima o poi. Avete in mente il telefono senza fili, quel gioco in cui bisogna dirsi l’un l’altro una frase all’orecchio, e l’ultimo la deve dire ad alta voce così come l’ha capita? Forse la musica del passato ci è arrivata per un tramite del genere. Ma quel che conta è che ha parlato ad ognuno di quella catena, e per ognuno ha rappresentato qualcosa. Anche per noi.




note di lavoro: solitudine

dal booklet del CD “romantico Bach live 5”


Strada facendo l’approdo del nostro itinerario nella musica di Bach è sembrato sempre più allontanarsi, e il nostro viaggio diventare sempre più un viaggio alla ricerca.

Lo avevamo intitolato “Romantico Bach” per la scelta di servirci non del testo originale ma di una sua lettura ottocentesca, quella di Schumann, forti del fatto che è stata questa a lasciare per prima una traccia nella storia della nostra cultura e che all’originale si è arrivati attraverso di lei e solo in un secondo tempo. Abbiamo giocato con la macchina del tempo perché abbiamo scelto strumenti e modalità esecutive più vicini a noi e in un certo senso assimilabili più all’epoca della lettura che non a quella della creazione del testo, e ci siamo divertiti a cercare accostamenti con musiche anche lontane da Bach, che gli si apparentassero per qualche aspetto e ne costituissero a loro volta una lettura.

Forse è stato per ragioni inconsapevoli che abbiamo rivolto il nostro sguardo non direttamente all’oggetto ma ai riflessi che ha lasciato di sé, attratti dalle tracce di verità che potevano esservi rimaste imprigionate. Ad una sola tappa dalla conclusione si comincia ad avere in mano carte certe, ed è ora di iniziare a tirare le somme sulla piega che ha preso il nostro viaggio.


Il programma di questo quinto concerto offre l’occasione di ascoltare una versione con pianoforte di un autore diverso da Schumann ma ugualmente illustre e ugualmente ottocentesco, anche se un poco posteriore e di altra area. Si tratta della versione del Preludio dalla Partita in mi maggiore di Camille Sant-Saëns; la versione di Schumann la ascolteremo entro la Partita eseguita per intero nel concerto a conclusione del ciclo.

Già Bach aveva utilizzato questo Preludio una seconda volta nella Sinfonia della Cantata n.29 “Wir danken dir, Gott, wir danken dir”, destinandolo ad un insieme strumentale in cui l’organo obbligato esegue la parte del violino ed è accompagnato da tre trombe, dai timpani, da due oboi e dall’orchestra d’archi.

Di primo acchito questo Preludio sembrerebbe non offrire occasione d’essere eseguito in maniere diverse, essendo in sostanza un moto perpetuo di semicrome. Ho udito però un conosciuto violinista filologo svelarci che è una Toccata sotto mentite spoglie, e come tale andrebbe eseguito con libertà e fantasia di fraseggio e assolutamente non a tempo come siamo abituati a fare. Fosse vero, e lo sarà certamente, non si tratterebbe però di una qualità che è nella musica bensì di un attributo dell’esecuzione al violino solo, perché la Sinfonia della Cantata in nessun modo potrebbe essere eseguita con libertà e senza repentaglio da un organico così ricco e per sua natura così poco capace di assecondarla. Fosse vero anche questo, per Bach quella musica sarebbe due cose, antitetiche ma ugualmente autentiche: una musica libera e improvvisatoria ed un’altra che si alimenta dalla costanza e dall’uniformità del moto.


La Sinfonia non la possiamo eseguire a violino e pianoforte ma vi consiglio di ascoltarla se ne avrete l’occasione. Schumann ragionevolmente non poteva conoscerla ma la versione che dà del Preludio ha qualcosa di molto simile, nel carattere e nell’uso di alcuni elementi ritmici caratteristici, come se fosse naturale adornare quella linea di violino a quel modo. 

Saint-Saëns, invece, sovrappone alla linea del violino una scrittura pianistica tardoromantica ricca e virtuosa, che all’orecchio di oggi suona curiosa ma infedele e datata. Solo dopo averla studiata ed eseguita abbiamo scoperto che la versione di Saint-Saëns è la Sinfonia, avendo egli limitato il suo intervento a ridurre l’orchestra al pianoforte. Dunque, e per complicare le cose, anche una fedeltà letterale può provocare una sostanziale deformazione dell’originale.


Già una volta nei concerti trascorsi avevamo potuto confrontare due versioni, destinate però ad organici diversi. Erano state le versioni di Brahms e Schumann della Ciaccona dalla Partita in re minore, quella di Brahms per pianoforte solo e quella di Schumann per violino e pianoforte. Ed era stato un confronto ricco di interesse, perché le strade percorse sono significativamente diverse, e la scelta dell’organico ne è una conseguenza.

La Ciaccona è una musica così piena di forza da sembrar superare di molto la potenzialità del violino. Schumann sceglie di fornirgli un terreno di appoggio perché provi a valicare i propri limiti, e con questo in un certo senso favorisce la realizzazione di un progetto probabilmente irrealizzabile. Brahms, invece, prende atto dei vincoli stringenti cui quel progetto è sottoposto come fossero la sua forza e lo destina allo strumento che nel tempo è diventato l’emblema della solitudine, cui toglie la potenza che ha coll’imporgli l’esecuzione con la sola mano sinistra, rendendolo fragile e solo com’è il violino nell’originale bachiano.

La versione di Brahms viene in un’epoca che precede l’esecuzione delle Sonate e Partite dai violinisti, così potrebbe sembrare che l’acquisizione al pianoforte sia solo una contingenza favorita dalle circostanze. Ma col toglierla allo strumento cui era stata destinata e per la maniera che sceglie per affidarla al pianoforte, Brahms mette in luce la faccia probabilmente più autentica della Ciaccona.


Si potrebbe discutere a lungo se sia preferibile la scelta di Schumann, che è come annotasse a margine la partitura, o quella drastica di Brahms. Ma rimane che la realtà che ognuna di esse svela non nega la realtà dell’altra. E alla fine entrambe pongono un problema probabilmente centrale in tutto il nostro ciclo, quello della solitudine dello strumento.

È davvero tutta la vita che mi chiedo ragione del fascino che la voce del violino ha, almeno su di me. Non ho mai avuto paura di suonare il violino da solo, forse perché amo quella dimensione che è tutta pianistica del colloquio con sé, della riflessione privata, e mi piace pensare di poterla riprodurre anche con lo strumento che suono. Ma quella dimensione è innaturale per il violino. Il violino ha una voce di una bellezza sontuosa ma incompleta, che è protagonista ma che ha bisogno del sostegno di altri, e che ha la facoltà misteriosa di conservare tutto il suo fascino e la sua naturalezza anche quando è moltiplicata in una moltitudine com’è in una fila di violini di orchestra, ciò che a logica dovrebbe cozzare con la sua natura da primadonna.

È così anche per la voce umana, che è bella da sola ed è bella altrettanto quando canta in un coro, che, come la fila d’orchestra, trae la propria vita dall’alimentarsi delle individualità che lo compongono e non dal loro annullarsi l’una nell’altra.

C’è una dimensione affascinante nella solitudine innaturale di uno strumento che solo non potrebbe stare, e altrettanto nella nudità di un strumento che è nato per essere indipendente e a cui si sottragga la più parte delle sue facoltà col togliergli la mano destra e con essa il registro del canto. Quale delle due sia più autentica e più vicina all’idea di Bach io non so, ma ora mi accorgo che molto più di quanto non credessimo il nostro viaggio è stato alla ricerca della verità.




note di lavoro: non è finito il nostro viaggio

dal booklet del CD “romantico Bach live 6”


Non c’è luogo più segnato dalle contraddizioni che non il viaggio. Richiede organizzazione, determinazione, ma, per definizione, non conosce la sua meta, che non si potrà raggiungere se non rinunciando alla logica che ha fatto da guida, e con un certo abbandono. È perfino difficile capire che un viaggio si sia concluso, perché pur nella convinzione di aver trovato ciò che si stava cercando si torna mutati e non è più possibile abitare il proprio mondo come si faceva prima.

Che il nostro fosse un viaggio lo abbiamo capito strada facendo: avevamo cominciato con l’idea di mettere alla prova una tesi, una volta iniziato è cambiato tutto.


Abbiamo voluto tenere un diario, come gli esploratori di un tempo. È in questi dischi.

La regola che ci siamo dati è che contenessero tutto, fuori programma compresi, e che ognuno arrivasse prima del concerto seguente, per non avere il tempo di pensare e semmai ritrarsi dal pubblicarlo. Massimiliano ha sempre consultato questo diario, io rigorosamente mai, credo per una ragione identica perché contraria. Forse lui ha sentito il bisogno di rassicurarsi periodicamente del percorso compiuto, io no, per non perdere il coraggio di andare avanti.


Abbiamo percorso l’itinerario prefissato e sarebbe tempo di tirar le somme. Ma le domande da cui avevamo preso le mosse, che ora paiono ingenue, sono state sostituite da altre domande. Non è finito il nostro viaggio, e per quanto noi si sia percorso della strada, la nostra meta non appare ora più chiara di quanto non fosse all’inizio, né più vicina. L’unica cosa che avvertiamo lucidamente è che la strada che stiamo percorrendo ha piegato definitivamente dentro a noi stessi, ed è quello il territorio in cui inoltrarsi.


Fulvio Luciani