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Se una notte d’estate un viaggiatore...
VII Concorso Internazionale per Quartetto d’Archi
Premio Paolo Borciani 2005
È con molta nostalgia che ritorno ai giorni bellissimi trascorsi a Reggio Emilia in occasione dell’ultima edizione del Premio Paolo Borciani. Ero molto curioso di poter ascoltare giovani quartetti provenienti da tutto il mondo. Mi sembrava l’occasione per capire in quale direzione stia muovendo il quartetto d’archi, se sia o no alla volta di una identità sovranazionale condivisa in tutto il mondo, e misurare di quale entità sia il debito che i giovani hanno, se ancora ne hanno uno, con la propria tradizione e la propria scuola. Non avevo idea di cosa avrei trovato ma - confesso - speravo di sentir pronunciare una parola nuova.
Questo disco raccoglie le esecuzioni del concerto dei vincitori; io cercherò di raccontarvi qualcosa di tutto il resto. Abbiate pazienza, sarà un racconto del tutto soggettivo.
E’ la serata finale, il concorso è già finito. Passeggio nella penombra del palcoscenico, solo, in attesa. Di là dal sipario, il bagliore della sala e il rumore del pubblico che prende posto. Di qua, il palcoscenico è uno spazio che nella penombra sembra enorme. La prima volta che ho suonato in pubblico è stato in un teatro come questo; il buio e la dimensione mi spaventavano, e badavo bene a non allontanarmi dalla zona illuminata dei camerini. Il mio maestro aveva avuto il suo daffare ad insegnare a me e ad un’altra bambina come ci si inchina. Abbassate gli occhi, l’inchino è un gesto discreto di ringraziamento.
Per tutta la settimana, i concorrenti hanno abitato solo il palcoscenico. Ora li vedo di persona, scambio qualche parola, cerco di capire se sono diversi dall’idea che mi ero fatto. Un giornalista della radio è allegramente dappertutto col suo microfono; un tecnico del suono vigila: il concerto è in diretta.
Il violoncellista degli Haas ha preso possesso di una sedia in mezzo al palco, spalle ad un pilastro. E’ lì solo, dei suoi colleghi non c’è traccia. Mi fa vedere che il suo strumento si è scollato, e mi fa sentire che razza di rumori produca: una vera falegnameria, ma quando suonerà non si sentirà affatto. Mi pare saggio e adulto. Ha vinto, in fondo avrebbe tutto il diritto di darsi qualche aria, invece sorride sereno.
Gli americani del Chiara sono un po’ sfuggenti. Si muovono in fretta, coordinati tra loro, quasi si telecomandassero in squadriglia. Lei, il primo violino, è luminosa e un poco stanca: è mamma da poco, mi chiedo se durante il concorso sia stata distratta dal pensiero del bimbo che ha portato fin qui, o se le sia stato d’aiuto. Quando suona quasi non solleva gli occhi, se non per lanciare qualche lampo improvviso, non sai dire se intrepido o titubante. Il violoncellista sembra dipendere da lei, suona voltato dalla sua parte, quasi in uno spasmo. Il violista, un giovane uomo molto signorile, è come se si sentisse in dovere di proteggere entrambi. Il secondo violino, una giovane e minuta donna orientale, mi era parsa una piccola guerriera e ora mi sembra invece assai dolce. In semifinale hanno eseguito una bella “Morte e la Fanciulla”.
Le quattro australiane del Tankstream sono tranquille, come fossero lì per caso. Quando suoneranno, faranno fuoco e fiamme. Ma adesso per loro vige il rompete le righe, continui a vederle, ma mai tutte insieme. Per uno strano fenomeno di attrazione si materializzeranno in un quartetto al momento buono.
Vedo l’espressione un po’ seria dei finalisti che non suoneranno questa sera. Saremo tutti insieme sul palcoscenico, concorrenti e giuria, al momento della premiazione, di fronte al pubblico in festa. Voglio ricordarli: gli americani del Biava, gli unici tra i finalisti ad avere un primo violino uomo, che hanno avuto il quarto premio, offerto a sorpresa da una generosa spettatrice, ad indicare il livello straordinario della competizione - l’avevo incontrata prima della finale: diceva che davvero non avrebbe voluto far parte della giuria, con tanti concorrenti così bravi e la responsabilità di dover scegliere fra loro! -, gli inglesi dell’Elias, un quartetto elegante e solido, di cui ricordo un bel terzo Quartetto di Britten e che mi rammarico sia tornato a casa avendo raccolto poco, e i tedeschi del Faust, tre belle ragazze e un atletico giovanotto, felici di suonare e fiduciosi nella vita, il cui sorriso questa sera è solo un poco corrucciato.
Comincia il concorso. Ma sono le nove e mezza del mattino! E gli ascolti, quest’oggi, dureranno fin quasi a mezzanotte, se saremo in orario.
I primi a suonare sono i Jade, cino-coreano-taiwanesi, eleganti nei loro vestiti da sera. Si sono presentati ben 22 quartetti, da tutto il mondo. Di alcuni conservo un ricordo vivo. Matangi, olandesi: suonano in una posizione strana, i violini uno a sinistra e l’altro a destra, verso il pubblico, la viola e il cello interni, col cello a sinistra dalla parte del primo violino, come i Wiener al concerto di Capodanno. Paizo, danesi: disciplinatissimi, equilibratissimi. Parker, americani: in eliminatoria hanno chiuso gli occhi e eseguito un ottavo di Shostakovich veramente emozionante. Romantic, russi, che hanno portato con sé la macchina del tempo e hanno suonato un affascinante Debussy di un’altra epoca. E poi gli Amedeo Modigliani: quattro simpaticissimi giovanotti francesi - uno dei rari complessi tutti al maschile -, generosi e fantasiosi. Ariel, da Israele: il quartetto più giovane, i cui violini si scambiano e uno dei due è una intrepida ragazzina. Di Cremona, i concorrenti italiani: un quartetto molto accreditato e molto formato, già con una notevole esperienza internazionale.
Di tutti ricordo la modestia, il desiderio di confrontarsi e di crescere. Con alcuni ho avuto occasione di scambiare due parole, al termine della loro partecipazione. Non posso dimenticare la dignità dei Parker, e lo sguardo penetrante, freddo del primo violino del Quartetto Paizo - molto più giovane di come mi era sembrato - che mi misura mentre ascolta ciò che ho da dirgli. Distoglie lo sguardo, pensa un po’, poi mi dice: “Sono cose che non ci aveva mai detto nessuno, ci penseremo”, mentre, dietro di lui, il secondo violino mi sembra respirare. Ma la parola definitiva l’ho avuta dal primo violino dell’Amedeo Modigliani. Eliminato, fuma con gusto una bella sigaretta e mi dice: “Maestro, abbiamo vent’anni, facciamo quartetto da due, cosa vuole che...” e, mi fa così con la mano della sigaretta. Una lezione, il futuro è loro.
In questa babele quartettistica non si resiste a non controllare se i francesi suonano da francesi, i russi da russi, gli americani da americani. Era una delle cose di cui ero curioso. Il responso è chiaro: i francesi suonano ancora da francesi, i russi da russi e così via. A me pare un fatto estremamente positivo. Nonostante le scuole strumentali nazionali abbiano perso molta della loro individualità, la relazione con la lingua parlata - e pensata - è sempre riconoscibile nel suono. E’ uno degli argomenti di riflessione che più mi intrigano: quanto l’espressione è involontaria, inevitabile, e quanto è prodotta dalla volontà e dall’educazione? Avrei avuto un suono russo se avessi studiato in Russia? Non credo.
Il giornalista mi para un microfono e mi chiede di parlare dei premiati. Era chiaro che me l’avrebbe chiesto, ma mi accorgo di essere impreparato.
Più tardi rileggo i miei appunti e mi stupisco di aver scritto del Quartetto Pavel Haas più che degli altri.
Ricordo il loro secondo di Janáček, di una naturalezza e intensità veramente notevoli. Gli Haas lo eseguono in una personale revisione. Le differenze tra manoscritto e prima edizione sono centinaia, mi diceva il cellista suonando il violoncello sventrato, e nessuno si è mai preso la briga di metterle a confronto. Aver saputo affrontare un lavoro simile presuppone una padronanza profonda del linguaggio e dell’universo poetico dell’autore, e un’affinità elettiva con la sua musica. Quello degli Haas mi pare un significativo contributo all’arte esecutiva del quartetto d’archi, che con la loro esecuzione è ora a disposizione di tutti.
Il programma che hanno scelto per il concorso è stato un programma ambizioso e significativo. Ciò che ha conquistato, poco per volta, è stata la naturale eleganza che essi possiedono, una dote che è un dono. Ma, assieme all’eleganza, gli Haas mostrano forti radici nella storia e nella cultura del loro popolo. Così sono gli Haas, oggi: eleganti nel suono, nel fraseggio, nell’equilibrio tra le voci, nella velocità, in cui sanno tuffarsi con vertiginosa leggerezza. Il loro sentire è profondo e autentico, ed è restituito con tanta naturalezza e semplicità da non poter non essere condiviso.
La loro prova ha concluso la finale, a sera. L’ultima cosa che hanno suonato è stato il Quartetto op.59 n.3 di Beethoven. Certo, il tempo era veloce, e si potrebbe discutere se sia o no il tempo giusto, ma alla fine tutto il teatro sorrideva.
Il violino sparato all’insù, gli occhi spiritati, seduta come sui carboni ardenti, con le gambe che non vogliono stare ferme e la schiena che si inarca e si piega in ogni direzione, il primo violino del Tankstream ha veramente l’argento vivo addosso. Una nota acuta suonata da lei è come se fosse ancora più in alto.
Le Tankstream sono quattro non so se dire giovani donne o ragazze, che più diverse non potrebbero essere: del primo violino ho detto, del secondo si coglie in ogni gesto l’amore per ciò che fa, la viola ha una fragilità e una ricchezza nello sguardo e come spesso accade sembra il perno intorno a cui ruota l’universo emotivo dell’intero complesso, e il cello, che suona con loro da poco, ha mostrato via via sempre più di quale energia possa disporre, di sapersi caricare da sola tutto il peso della musica che insieme stanno suonando. Hanno suonato la semifinale in stato di grazia, con un suono lucente e pieno di energia. Bellissimo il terzo Quartetto di Schnittke.
“A Sad Paven for these distracted tymes” è il titolo del pezzo scritto da Sir Peter Maxwell Davies per questa edizione del Premio Borciani. Il titolo potrebbe sembrare una riflessione sul presente, invece proviene da una composizione per tastiera scritta da Thomas Tomkins nel 1649.
C’è qualcosa di magico e di misterioso nell’osservare un autore che ascolta un suo pezzo: il senso di una vita che si forma e sfugge al suo creatore. Gli occhi chiari e sorridenti, una gentilezza discreta e disponibile, Maxwell Davies si è unito alla giuria per la prova finale e ha ascoltato la sua Sad Paven ben sei volte. Ho avuto la sensazione che Sir Peter abbia ascoltato qualcosa di diverso da ciò che abbiamo ascoltato tutti noi, ma mi è sembrato inevitabile. Il suo è un pezzo complesso, suggestivo, ricco di occasioni per chi lo suona e chi lo ascolta.
Rifaccio la valigia. Non è un lungo viaggio. Mi rimarrà il ricordo di una settimana intensa, vissuta in un teatro accogliente come una casa, e l’amicizia di persone giovani, affettuose ed entusiaste come Guido Borciani, anima del Premio, Francesca Zini, anima del Premio anch’essa, e di tutte le persone che con passione hanno dato vita al Concorso.
Eccoli, i vincitori. Hanno messo borse e strumenti in un angolo e si prendono qualcosa ai tavoli del buffet. Li vedo un po’ abbandonati. In un momento la loro vita è cambiata, hanno ragione di avere qualche pensiero. Ma sono felici, si cercano e ridono, tra loro, come se fossero soli. Buona fortuna.
Fulvio Luciani