cantiere

 

intorno a brahms

1° concerto

Auditorium di Milano, Largo Gustav Mahler

6 ottobre 2013, ore 11



1* concerto

“Il suo nome è Johannes Brahms”

Schumann Sonata in re minore op.121

Schumann Uccello profeta, dalle Waldszenen op.82, versione per violino e pianoforte di Leopold Auer

Schumann Tre Romanze op.94

Schumann Intermezzo - Brahms Scherzo, dalla Sonata FAE dedicata a Joseph Joachim



Fulvio Luciani, violino

Massimiliano Motterle, pianoforte



note di lavoro: il suono di schumann


Nel 1853 - in questi giorni: il 30 settembre - Brahms fece visita a Robert Schumann, a Düsseldorf. Senza tante cerimonie gli fu chiesto di suonare la sua musica. Il 28 ottobre, la Neue Zeitschrift für Musik pubblicava un articolo intitolato “Vie nuove”, in cui Brahms veniva descritto da Schumann come un messia, “chiamato a tradurre in modo ideale la più alta espressione dell’epoca [...]. Egli è tra noi, creatura dal sangue giovane, e attorno alla sua culla hanno vegliato le Grazie e gli Eroi. Il suo nome è Johannes Brahms”, una rivelazione e una consacrazione.

Sempre il 28 Schumann, Dietrich, suo allievo, e il nuovo amico Brahms, fecero trovare a Joachim una Sonata scritta in dieci giorni per fargli una sorpresa. Dietrich di quella Sonata aveva scritto il primo movimento, Brahms lo Scherzo - la prima musica che gli conosciamo per violino e pianoforte -, Schumann, che aveva promosso l’idea, l’Intermezzo e il Finale. L’indomani Schumann diresse un concerto al Festival del Basso Reno che sarebbe stato il suo ultimo, e di lì a pochi giorni Brahms partì per stabilirsi ad Hannover insieme a Joachim. Era trascorso un solo mese, fondamentale per i destini di Brahms e in cui Schumann aveva goduto di un ultimo cascame di lucidità. 

Schumann non scrisse più, se non altri due movimenti per violino e pianoforte a completare una Sonata tutta propria, la sua terza, e il 4 marzo seguente entrò nel manicomio di Endenich, dove morì due anni più tardi.

Inizia da qui, da Schumann e da questa occasione fortuita in cui la musica dell’uno e dell’altro sono vicine, il nostro ciclo dedicato a Brahms.


Il mestiere di esecutori ci porta a fare cose che, osservate da un altro punto di vista, sono spesso prive di logica. In fondo, noi abbiamo l’occasione di un rapporto carnale con la musica e spesso, nella vertigine che ne deriva, o semplicemente distratti dalla necessità di imparare la tecnica necessaria ad eseguire i pezzi, ci facciamo ben poche domande. È un bene e un male. Quando poi quelle domande riescono a farsi largo, spesso ne siamo i più sorpresi.

Ho iniziato a suonare la terza Sonata di Schumann senza conoscere quasi nulla della sua storia, e avendo sempre un po’ storto il naso alla Sonata collettiva di cui ho detto. Così, della distanza estrema che separa la felice, giovanile semplicità dell’Intermezzo dall’ispida complicazione tecnica e musicale del Finale, non avevo né coscienza né opinione; in cuor mio pensavo fossero due musiche bellissime in maniera del tutto differente, scritte chissà quando e collocate lì alla bell’e meglio. Invece, sono tutte e due insieme l’esito ultimo - o meglio, penultimo: degli altri due movimenti della Terza Sonata parleremo in occasione dell’ultimo concerto di questo ciclo, quando la Sonata sarà eseguita per intero - di una mente posseduta dalla poesia e dalla follia in eguale misura, facce difformi di un’unica fisionomia. Forse, se mi fossi fatto qualche domanda, avrei colto fin da subito l’ambivalenza di quell’accostamento; ma, così com’è andata - lo ripeto, per pura ignoranza -, ho potuto misurare su me stesso la loro cifra, e, avendole dapprima considerate come due cose separate in tutto, ora la loro coincidenza mi appare ben più significativa.


Nella nota introduttiva a questo ciclo ho detto che, a dispetto delle preferenze che sempre dichiaro per altri, è Schumann l’autore a cui ho continuato a rivolgermi durante il corso della mia vita. Ho letto il Concerto all’epoca del corso medio, studiato la prima Sonata prima del diploma e il terzo Quartetto al primo corso estivo che ho frequentato, suonato tutti i Quartetti, il Quintetto e un programma in duo con pianoforte in un ciclo che ha avuto vita nel 2001 proprio qui all’Auditorium e che era trasmesso in diretta su Radio3, e ne ho registrato la musica per violino e pianoforte in disco e in video. Certo, la vita di un esecutore è un continuo tornare sui propri passi, e non c’è nulla di strano se ricorrentemente sono tornato a Schumann. Ma viene da farsi qualche domanda se pensate che è un autore che molti avvertono contro il violino.

Si sa che Schumann è stato prima di tutto autore di musica per pianoforte, ma è curioso notare quanto Paganini sia stato importante per lui, più per la sua musica pianistica, in verità, che non per quella che coinvolge il violino: Paganini lo si incontra in una delle maschere di Carnaval op.9, negli Studi op.3 e op.10 basati sui Capricci, e nell’accompagnamento pianistico a tutti e 24 Capricci, senza numero d’opera. Ma quel che Schumann non può aver ricavato dal vivo ascolto di Paganini è la sua idea del suono violinistico che è, invece, del tutto personale, in un certo senso forse addirittura più originale della sua voce pianistica, pur essendo per molti il limite della sua scrittura per il violino.


Com’è il suono di Schumann? Si potrebbe dire che è un suono non-violinistico, scuro, povero di canto in favore di una specie di parlato, sempre condizionato dal problema di opporsi ad una scrittura pianistica densa e altrettanto centrata su una tessitura media, dove il pianoforte è tanto più potente e fatica ad essere trasparente per lasciar spazio al violino quando serve. Credo sia la natura profonda del meccanismo creativo schumanniano a volere quel suono, e che di quella natura  il violino sappia rendersi tramite forse addirittura ideale, comandato com’è non dalla volontà ma dal profondo interiore dell’esecutore, quello stesso profondo che ha governato l’autore nel momento della creazione, senza cercare un tramite compositivo in senso stretto per potersi esprimere, senza che un esito costruttivo abbia veramente importanza, a dispetto dell’uso di forme - com’è quella della Sonata - alte e consolidate.


Prendiamo la Sonata op.121. In essa ciò che prevale non è il senso della narrazione, del racconto, è invece uno stato d’animo, che perdura quasi senza bisogno di una vicenda, e per un tempo straordinariamente lungo per una Sonata per violino e pianoforte. Quasi non ci sono temi, non sorprese, non volubili mutamenti di carattere né occasioni per spendere le proprie qualità di esecutore sensibile ed elegante - ed è forse soprattuto per questo che per lungo tempo i violinisti si sono tenuti lontani dalla musica di Schumann -, ma è ben chiara la sensazione di malessere che la pervade tutta, il colore, quasi l’odore della situazione potentemente espressiva che è, essa stessa, l’oggetto del racconto.

Brahms non è così. Se Schumann scrive come fosse in presa diretta, Brahms programma, fabbrica, deduce, e consegue con straordinaria maestria l’illusione della spontaneità. La sua è un’arte quasi antitetica rispetto a quella di Schumann, ed è curioso e significativo che si siano reciprocamente riconosciuti quando la loro diversità avrebbe potuto renderli nemici o sordi l'uno all'altro.


Fulvio Luciani

quattro concerti intorno a brahms

foto massimo volta