10 novembre 2013 , ore 11
Auditorium di Milano, Largo Gustav Mahler
3* concerto
L’immagine riflessa: un altro strumento
Johannes Brahms: Valzer op.39, versione per violino e pianoforte di Paul Klengel
Johannes Brahms: Sonata in fa minore per violino e pianoforte op.120.1, versione originale della Sonata per clarinetto
Brahms - Castelnuovo-Tedesco: Tre Intermezzi op.117, versione per violino e pianoforte di Mario Castelnuovo-Tedesco (1947-1951)
Johannes Brahms: 4 Danze ungheresi, n.6, n.9, n.14 e n.17, versioni per violino e pianoforte di Joseph Joachim e Fritz Kreisler
Fulvio Luciani, violino
Massimiliano Motterle, pianoforte
note di lavoro: l’immagine riflessa
I musicisti classici hanno strani tabù. Uno dei più buffi è: se una musica non è scritta per il tuo strumento non ti puoi abbassare a suonarla. Così, molto di quel che è in questo ciclo, i violinisti non l’avrebbero suonato mai - le Romanze op.94 di Schumann, ad esempio, perché la loro prima destinazione è per l’oboe e il violino è solo una possibile alternativa, o le Sonate op.120 di Brahms, perché ignorano che Brahms le ha riscritte in una versione per violino -, e il nostro gioco sarebbe finito già la scorsa volta.
Una musica scritta per il tuo strumento è comunque un concetto molto lasco. Proprio il tuo, o, genericamente, uno come il tuo? Può sembrare una distinzione un po’ sofistica ma, provate a pensare: in una lodevole ricerca di autenticità, come ci si dovrebbe regolare, tanto per fare un esempio, con una specifica Sonata di Beethoven? Ci si dovrebbe servire del pianoforte per il quale è stata pensata, tra i molti e molto diversi che Beethoven ha usato, tutti nemmeno parenti di quelli attuali? E suonerebbe come allora, stante che tutto ciò che gli sta intorno, il mondo in cui è contenuto e l’universo sensibile e delle idee che quel mondo abita, è cambiato? Tutto questo ha veramente significato per la musica?
Ad ogni modo, quel tabù vale più per gli interpreti che non per gli autori.
Brahms, che è quel che ci riguarda, molto spesso è arrivato alla definitiva veste strumentale dei suoi pezzi per tentativi: il Concerto per pianoforte op.15 è stato prima una Sonata per due pianoforti, poi una Sinfonia e finalmente, dopo mille rimaneggiamenti, il Concerto che conosciamo; il Quintetto op.34 è stato un Quintetto con due violoncelli, poi una Sonata per due pianoforti - arrivata ad essere eseguita in pubblico, insieme a Tausig - e infine, dopo il consiglio di Clara Schumann di trasformarla in Sinfonia, un Quintetto per pianoforte e archi; addirittura, lo Scherzo del secondo Concerto per pianoforte era stato pensato entro il Concerto per violino, e che ne sia stato tolto dispiace ancora adesso.
Non che Brahms fosse un sor Tentenna: è che in fondo la veste strumentale di una composizione non è che un’approssimazione dell’idea formatasi nella mente del compositore, che di quell’idea inevitabilmente rivela solo alcuni tratti. Una veste strumentale altra non è necessariamente una veste minore ma, appunto, semplicemente un’altra veste, con una sua peculiare capacità di render manifesti altri tratti.
Se siamo d’accordo che suonare su un altro strumento - dove “altro strumento” lo sono, per definizione, proprio tutti, a un grado di distanza tutto da definire, ma non così significativo - non è tradire, si apre allora un mondo di meraviglie che io non vorrei negarmi.
Il programma di quest’oggi raccoglie musiche tutte arrivate al violino con un secondo atto creativo.
Brahms aveva manifestato l’intenzione di non comporre più dopo il Quintetto con due viole op.115, una magnifica conclusione per una vicenda creativa tanto importante; invece, dopo aver ascoltato uno straordinario strumentista, il clarinettista Richard Mühlfeld, cambiò idea e decise di continuare. Non fosse stato per Mühlfeld non avremmo avuto il Trio col clarinetto op.114, il Quintetto con clarinetto op.115 né le Sonate op.120, ma nemmeno le opere da 116 a 119 per pianoforte, una straordinaria e poeticissima epifania creativa di cui, ora che la possediamo, non ci sarebbe sembrato possibile d’esser rimasti senza.
Dire per quale strumento siano le due Sonate op.120 è, però, più arduo del solito.
Furono scritte per clarinetto o viola, due strumenti che hanno caratteristiche, soprattutto di penetrazione acustica, davvero non comparabili. Brahms decise di farne anche una versione per violino - che, come dicevo, i violinisti non suonano mai -, da pubblicare in un secondo tempo e per la quale si scusò con l’editore per il numero di interventi compiuti, che avrebbero reso più complessa e onerosa la stampa. Ma va detto che Mühlfeld - che era stato violinista - suonava un clarinetto costruito appositamente per lui, che nessun altro ha usato. Dunque, a rigore, le Sonate op.120 e tutti gli altri pezzi che ho citato sono stati scritti sulla suggestione di quel suono, per quel clarinetto, e suonarle su uno strumento diverso da quello è un’approssimazione non migliore di altre. Ma, come dicevo, è un’approssimazione che non allontana dalla verità. Tre versioni, dunque, per tre strumenti diversi nei fatti e nella psicologia.
Di danze ungheresi Brahms aveva esperienza fin da quando in gioventù ne suonava col violinista Ede Reményi. Quando ne pubblicò la sua raccolta, proprio Reményi, geloso del successo che ottenne fin da subito, intentò una polemica, poiché sosteneva che Brahms si fosse appropriato di un patrimonio dei musicisti ungheresi. Brahms, però, aveva pubblicate le Danze come adattamenti per il pianoforte, chiarendo fin da principio che si trattava della trasposizione di un repertorio folklorico. Almeno una di queste, però, era interamente sua, ed è compresa nella selezione eseguita quest’oggi: è la n.14.
Come sempre, Brahms scrisse le Danze Ungheresi per pianoforte a quattro mani, ne trascrisse una parte per pianoforte solo, e ne orchestrò alcune. Le versioni per violino e pianoforte sono dell’amico Joachim - e si tratta di versioni da considerarsi autentiche come le avesse fatte Brahms stesso - e di un altro violinista celebre, Fritz Kreisler.
I Tre Intermezzi op.117 - “la ninna nanna dei miei dolori” -, una delle straordinarie opere pianistiche della maturità, sono qui nella rarissima versione per violino e pianoforte di Mario Castelnuovo-Tedesco.
Castelnuovo-Tedesco è una figura oggi un po’ dimenticata, che meriterebbe un discorso a parte. Fiorentino, nel 1939 fu costretto ad emigrare negli Stati Uniti in conseguenza delle leggi razziali. Fu un pianista e un compositore molto riconosciuto. Il suo debutto americano ebbe luogo alla Carnegie Hall con la New York Philharmonic Orchestra sotto la direzione di John Barbirolli, e tra gli interpreti della sua musica ebbe nientemeno che Toscanini, Mitropoulos, Koussevitzky, Heifetz, Gieseking, Segovia e Piatigorsky: non semplicemente personaggi illustri ma l’assoluto non plus ultra della sua epoca.
Fu anche un importante didatta. Furono suoi allievi, in un rapporto liberamente cercato al di fuori delle istituzioni, John Williams, Henry Mancini e André Previn, tra gli altri.
La sua attività getta un ponte tra la tradizione colta europea da cui proveniva e le esperienze della musica per il cinema di Hollywood e del jazz della costa occidentale - André Previn diceva che aver studiato con Castelnuovo-Tedesco era un requisito indispensabile per un musicista californiano, sia del cinema che del jazz -, che la rende una vicenda esemplare della musica del Novecento.
Ai Valzer op 39 non avremmo rinunciato mai. Furono scritti per pianoforte a quattro mani, poi per pianoforte solo non senza modificarli un po’, e fu l’editor di Casa Simrock, Paul Klengel, a prepararne una versione per violino a pianoforte che, come quella per pianoforte solo rispetto a quella per quattro mani, interviene sul percorso armonico dei Valzer.
Valzer, il simbolo della spensierata città di Vienna, e il nordico Brahms sembrerebbero non poter andare d’accordo. Ma Vienna fu per Brahms una conquista, e forse lo fu anche il suo spirito.
Fulvio Luciani
quattro concerti intorno a brahms
intorno a brahms
3° concerto