beethoven
Beethoven, integrale dei quartetti
1997-99
Milano, Teatro Lirico
Quartetto Borciani
Post scriptum
Franco Donatoni, LUCI III (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
Nel caso di Franco Donatoni, il riferimento è tortuoso e, insieme, affettuoso e personale. Già una sua composizione per quartetto d’archi, The heart’s eye - scritta per il Quartetto Italiano - era nata da una suggestione beethoveniana, e precisamente dall’idea di suono espressa dal Quartetto Italiano nell’interpretazione della Canzona di ringraziamento dell’Op.132, indicata da Elisa Pegreffi come esito paradigmatico del suono del Quartetto Italiano. Dunque una suggestione doppia, filtrata attraverso la personalità di un interprete. L’ultima memoria che abbiamo di “quel” suono è nell’esecuzione della bachiana Arte della Fuga, che ha segnato il congedo dall’arte e dalla vita di Paolo Borciani, indimenticabile primo violino del Quartetto Italiano.
A battuta 609 della beethoveniana Große Fuge Op.133 compare il nome di Bach pronunciato per moto contrario secondo la notazione letterale tedesca (B=si bemolle, A=la, C=do, H=si bequadro). Quel materiale musicale costituisce una citazione del terzo soggetto dell’ultimo contrappunto, incompiuto, dell’Arte della Fuga, ove Bach nomina se stesso. Dunque, Beethoven consciamente faceva riferimento a Bach nella sua composizione più provocatoriamente distante dalla fisionomia del contrappunto bachiano.
Il materiale musicale di Luci III è preso anch’esso dall’Arte della Fuga, e questo, nel senso che ci riguarda, chiude il cerchio. Non poteva, da parte nostra, non andare un pensiero colmo di significati alla memoria di Paolo Borciani, mentre si avvia la macchina di questa “integrale” beethoveniana.
f.l.
Lorenzo Ferrero, BEETHOVENFEST (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
Il riferimento beethoveniano è stato trovato da Lorenzo Ferrero in un frammento dell’Op.127, precisamente le battute 83-85 del quarto movimento, ove Beethoven ripete per tre volte, su un ritmo quasi marziale, un motto particolarmente aspro e dissonante. Quelle tre battute - citate alla lettera - aprono Beethovenfest.
L’omaggio è, oltre che nella presa a prestito del materiale, nell’uso di procedimenti compositivi, potremmo dire, d’epoca. Ciò che della scrittura beethoveniana impressionava i suoi contemporanei per novità, una novità proiettata in un futuro lontano, suona oggi al nostro orecchio, che il futuro abitiamo, assai diversamente. La “colpa” è in ciò che è accaduto da allora. Quei gesti compositivi, così pieni di forza suggestiva, sono stati continuamente riprodotti: ciò che era in origine un atto eccezionale, e per questo eccezionalmente significativo entro un linguaggio, è a poco a poco diventato uno degli elementi costitutivi di uno stile, quasi un modo automatico della composizione. L’esempio ha fatto scuola, la scuola ha prodotto la maniera ma non ha indebolito la forza eversiva del modello, che oggi sentiamo nella pienezza del suo contenuto comunicativo mondato di ciò che allora veniva avvertito come eccentricità.
Ferrero usa con disincanto e ironia quegli automatismi - un modo plausibile, oggi, di rapportarsi ad essi e a ciò che storicamente significano - che continuamente muovono il materiale di partenza, lo fanno proliferare in un gioco caleidoscopico di mutamenti sempre sottilmente riconducibili al suo stato primo.
f.l.
Arvo Pärt, FRATRES
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
Per una volta, come poscritto non avremo una prima esecuzione, bensì una pagina nota di Arvo Pärt, Fratres, nella versione per quartetto d’archi. La presenza in questo programma della Canzona di ringraziamento entro il Quartetto Op.132 ha suggerito questa scelta. C’è qualche cosa che apparenta Fratres, una delle pagine più straordinariamente suggestive della letteratura quartettistica del nostro secolo, alla Canzona: la religiosità dichiarata, anzitutto - certo, una religiosità ben diversamente intesa! - ed il ricorso deliberato ad un linguaggio musicale del passato. L’uso di una lingua arcaica conferisce a queste due pagine un carattere rituale e simbolico - addirittura liturgico nel caso di Fratres - e ne provoca la sospensione dal tempo storico: è nell’arcano fascino che ne deriva che entrambi i pezzi trovano una ideale, ipotetica contiguità.
f.l.
Luca Francesconi, APRES TOUT (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
Apres tout è un estratto da Mirrors, il terzo Quartetto di Luca Francesconi, una specie di elaborazione sintetica di quella che in origine era una grande, complessa architettura. Il riferimento beethoveniano consiste nell’uso di due diversi accordi provenienti dalla Große Fuge Op.133 e che in Apres tout - com’era anche in Mirrors - compaiono all’inizio e alla fine. Il pezzo si apre con un si bemolle - la tonalità della Große Fuge - pizzicato sforzato, la cui risonanza, prolungata e raddolcita in note tenute, poco a poco si arricchisce con i suoni dell’accordo beethoveniano. Le situazioni che si susseguono sono sostanzialmente tre: nella prima il ritmo è sviluppato con particolare rigoglio, la seconda è in sostanza un “solo” della viola dal sapore vagamente medio-orientale, la terza, che guarda alla prima come da una opposta sponda e il cui archetipo è da ricercarsi nella Ciaccona bachiana, è invece una scena accordale in cui il ritmo è ridotto ad una struttura rudimentale ed invece prevale l’interesse per la sovrapposizione dei suoni. La conclusione della composizione coincide quindi con il riferimento più arcaico e l’inizio si scopre essere non una introduzione bensì la sintesi simbolica - in un certo senso, un punto di arrivo - delle acquisizioni a partire da quel luogo arcaico fino alla Große Fuge, madre senza tempo di ogni idealità in musica.
Ciò che vi è di più interessante non è però nell’uso del materiale né nella disposizione cronologicamente ribaltata dei riferimenti ideali quanto nel meccanismo di trasformazione del materiale. E’ l’equilibrio dinamico dei differenti parametri che regolano il materiale (ritmo, altezza, armonia, timbro, per dire solo di alcuni) a provocarne le trasformazioni, cosicché una tendenza a prevalere di uno di questi provoca una reazione anche negli altri che è connaturata alle proprietà del materiale, prodotta dal suo metabolismo, della chimica del suo organismo.
L’autore provoca processi la cui logica è regolata dalle proprietà del materiale stesso. Così il sapore medio-orientale del “solo” della viola non è il prodotto del ricordo di musicale tradizionale né una citazione ma è dovuto ad una trasformazione del materiale legata alle sue strutture più intime.
I compositori come gli antichi alchimisti: irresistibilmente attratti dall’oggetto dei loro studi, i cui atti erano proiettati con coraggio in un mistero inesplorato e ingovernabile, terribilmente affascinante.
f.l.
Franz Schubert - Alessandro Solbiati, II KLAVIERSTÜCK D946 (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
In occasione di questa integrale beethoveniana abbiamo voluto non mancasse anche un piccolo contributo schubertiano. Così abbiamo chiesto ad Alessandro Solbiati di trascriverne per quartetto una composizione pianistica.
Per noi, che guardiamo di lontano, Schubert è la parte in ombra del tempo di Beethoven.
Beethoven è convinzione, eroismo, aspirazione idealistica, lotta; Schubert è disincanto, quotidianità arresa. La sua forza è quella, sublime e tragica, della poesia ed il suo sorriso guarda alle miserie dell’uomo con la tristezza dolce di chi ha capito che tutto è inutile, eppure non per questo bisogna rinunciare a vivere. “Soll sanft in meinem Armen, schlafen” (Dolcemente dormirai tra le mie braccia) dice la Morte alla Fanciulla mentre, abbracciandola, la carpisce alla vita, ed è nella tragica dolcezza di quell’atto il senso del sentire più intimamente schubertiano, ed anche l’occasione per rammentare la parte più dimenticata e intima della sensibilità beethoveniana, che ha un commosso fondo di umanissima fragilità.
La trascrizione di Solbiati è una trascrizione quasi letterale, ma più che una trascrizione è un atto d’amore per una musica bellissima, che si deve confessare di amare per questo solo semplice fatto. Il medium del quartetto d’archi, coerente ma pur sempre composto da quattro individualità distinte, suggerisce un gioco di risonanze tra gli strumenti; queste risonanze accrescono di significato fino al punto di produrre una memoria concentrica del tema dell’inizio in cui i singoli frammenti si inseguono senza coordinazione, allentando il loro legame oltre il limite della percezione logica. E’ questo il luogo simbolico di una delle più straordinarie rivelazioni schubertiane, la capacità di sospendere il tempo, di dilatarlo fino a sperdere memoria e coscienza dell’ascoltatore, e fargli dimenticare la nozione della distanza tra inizio e fine, e della relazione di queste con il luogo dove si è.
E’ questo ciò che Schumann, io credo non senza sgomento, chiamava “la divina lunghezza” di Schubert, che fu musicista capace di esprimere con innocenza, e per questo con la massima verità, quanto di più tragico, a volte inconsapevolmente, risieda nell’animo di ogni uomo.
f.l.
Giovanni Sollima, VAN (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
Mai, nella mia vita, avrei pensato possibile dover eseguire, nella stessa serata, lo stesso pezzo, prima per diritto e poi per rovescio! VAN di Giovanni Sollima è il N°5, il cosiddetto Scherzo, del Quartetto Op.131, riscritto all’incontrario, dalla fine all’inizio, con qualche libertà.
Ma VAN è veramente il N°5 dell’Op.131? Perché, percorsa in senso contrario, la logica della musica, le relazioni armoniche, ritmiche e narrative che la regolano, non è più la stessa. L’esecuzione in senso contrario provoca una metamorfosi profonda. Tutto assume un significato diverso, non, semplicemente, il significato contrario.
Ma è solo un gioco. Anzi - forse ho sbagliato, - non dovevo dirvi nulla …
f.l.
Fabio Vacchi, MOVIMENTO DI QUARTETTO (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
Ho riletto il cappello, sempre uguale, di queste mie introduzioni, e mi sono sorpreso della frase: “avrà la sua prima esecuzione”. Siamo vicini alla conclusione di questa nostra integrale beethoveniana e quasi mi sarei aspettato di trovar scritto: “ha avuto la sua prima esecuzione”. Certo, questo piccolo spazio che abbiamo voluto tener aperto alla musica del presente, è stato una sorpresa, per noi prima che per i nostri ascoltatori.
Avevamo chiesto un atto creativo che nascesse da Beethoven, sotto forma di suggestione, di omaggio, di citazione, trascrizione o parafrasi, un atto d’amore o di ribellione, o una confessione di indifferenza liberamente dichiarata. Cercavamo di capire se il lascito beethoveniano è ancora vivo, e l’avremmo misurato su noi stessi, sul grado di interesse e di coinvolgimento che queste opere avrebbero saputo suscitare in noi esecutori. Fino ad oggi abbiamo avuto il contributo di compositori di aree diverse, i quali ben diversamente si sono comportati. Ad alcuni abbiamo proposto un’idea, qualche volta apparentemente lontana da Beethoven, altri hanno fatto da sé, in piena libertà. Insomma, questo piccolo omaggio del presente a Beethoven ha preso vita come ha voluto, e se ha avuto un pregio è stato quello della sincerità.
Il caso di “Movimento di Quartetto” di Fabio Vacchi è, in un certo senso, paradigmatico della “attualità” beethoveniana. Non esiste un riferimento beethoveniano esplicito, anzi, si tratta di un pezzo nato da una volontà creativa propria. La scrittura è di assoluto rigore contrappuntistico – com’è la scrittura degli ultimi quartetti beethoveniani! – e la vicenda creativa narra della opposizione di due spunti tematici di carattere opposto, generati dal medesimo materiale, che dapprima semplicemente si fronteggiano per poi trovare una specie di conciliazione.
Il luogo della conciliazione è l’occasione per un omaggio, forse involontario, ad uno dei momenti più emozionanti della musica beethoveniana, il “Beklemmt” della Cavatina Op.130, quando la meravigliosa, quasi ipnotica continuità del canto viene interrotta da un breve e angosciato recitativo del primo violino (Beklemmt) su uno sfondo appena increspato degli altri strumenti. In Vacchi sono tutti gli strumenti a parlare, a interrogarsi, e a me piace pensare che questo gesto, nato certamente da una indipendente volontà creativa, possa ricondursi a quel luogo incantato.
E’ possibile essere del tutto indipendenti da Beethoven? Forse sì, ma forse solo a condizione di esserne inconsapevoli. Ancora oggi guardare a Beethoven è come guardare ad una sorgente di luce così forte da non poterla non scorgere nemmeno chiudendo gli occhi. Là dove il sapore di un gesto creativo faccia riandare la memoria ad un gesto beethoveniano – come i gesti beethoveniani attingevano, consapevoli o inconsapevoli, alla forza comunicativa di chi lo aveva preceduto - è la miglior conferma della sua intatta influenza sul presente. Una influenza che, com’è ovvio, si esercita in maniera peculiare alla nostra epoca e che assolutamente non significa che la nostra sia un’epoca rivolta al passato: semplicemente ne ha coscienza storica.
La mia personale conclusione è che, forse, è possibile prescindere completamente da Beethoven: ciò che non è possibile è il volerlo fare.
f.l.
Azio Corghi, “MUSS ES SEIN?” (prima esecuzione)
Come speciale appendice ad ognuno dei concerti, il Quartetto Borciani ha voluto chiedere a quei compositori italiani con i quali ha collaborato in questi anni una breve composizione, idealmente o suggestivamente legata a Beethoven, che in questa sede, a mo’ di “bis”, avrà la sua prima esecuzione. E’ questa l’occasione per ripensare ad una speciale attualità beethoveniana, alla vitalità del suo lascito e all’influenza che ancor oggi può esercitare sulla musica del presente: non c’è modo più autentico che non farlo attraverso un nuovo atto creativo.
“Muss es sein?” di Azio Corghi nasce dallo sgomento per l’orribile guerra che sta insanguinando il Kosovo, e richiama uno dei temi beethoveniani più noti, quello dell’impegno ideale.
Il legame con Beethoven è dichiarato nel titolo. L’ultimo movimento dell’ultimo quartetto di Beethoven, “Der Schwer Gefasste Entschluss” (La difficile risoluzione), si apre con la domanda “Muss es sein?” (Deve essere?) formulata in tempo Grave ma non troppo tratto, cui risponde, in tempo Allegro, la positiva affermazione “Es muss sein” (Deve essere!). Non è dato sapere a quale difficoltosa risoluzione si voglia alludere. Domanda e risposta provengono da un canone scherzoso dedicato ad un amico per rammentargli un debito passato in fanteria (Es muss sein! ja ja ja ja!).
Il tono leggero dell’Allegro induce a non indagare troppo sulla domanda e pare quasi disattenderne il senso, con leggerezza, rassicurando l’ascoltatore come di uno scampato pericolo. Il quesito forse più angosciato e dichiarato della musica beethoveniana non ha risposta: c’è forse più eroismo in questo che non in una lotta affrontata a viso aperto.
Il materiale musicale di “Muss es sein?” è tutto preso dall’originale beethoveniano, dalla formulazione della domanda e dalla sua riproposizione alla quarte superiore.
Scrive Corghi: - Di fronte alle sensazioni di orrore e impotenza procurate dalle assurde guerre di questa fine del secolo, la ragione è latitante. “Dev’essere così?” -.
In Beethoven il movimento si conclude col sorridente tema di marcia dell’Allegro, pizzicato in pianissimo e ornato da una semplice frase, fatta di niente, al primo violino.
In Corghi la musica non trova il modo di formulare una risposta affermativa, e la conclusione ripropone ancora una volta l’angosciosa domanda iniziale.
f.l.