romantico bach 2
Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, Largo Gustav Mahler
domenica 19 ottobre 2014, ore 11.30
Romantico Bach 2
Johann Sebastian Bach: Partita in si minore per violino solo BWV 1002, versione di Robert Schumann con pianoforte
Wolfgang Amadeus Mozart: Adagio in si minore per pianoforte KV540
Arvo Pärt: Fratres per violino e pianoforte (1980)
Johann Sebastian Bach: Sonata in si minore per violino e cembalo BWV 1014
Fulvio Luciani, violino
Massimiliano Motterle, pianoforte
note di lavoro: un’idea fissa
Tre dei pezzi in programma sono in si minore, e il quarto è tutto costruito su una sola nota. Di norma si evita di costruire un programma tutto in una tonalità, perché si teme che tanta uniformità possa generare noia. La Partita in programma quest’oggi è però così caparbiamente in si minore - talmente in si minore, si potrebbe dire - da offrire un’occasione di riflessione difficile da ignorare.
Partita - Partia, nell’autografo - sta per Suite: semplicemente una successione di danze. Il debito bachiano alla forma di tradizione è tutto qui, nel riferimento all’involucro. Viceversa, la destinazione al violino solo costituisce un fatto senza precedenti.
Violino solo è quasi una contraddizione di termini, perché il violino fatica a realizzare più suoni, com’è necessario fare quando uno strumento sia privato di un sostegno o di un sodale. Qualcuno aveva già tentato una scrittura polifonica per il violino - Baltzar, Biber, Strungk, Walther e Westhoff: nomi, a parte Biber, oggi dimenticati - ma non è dalle queste esperienze che Bach prende le mosse. Se i suoi predecessori ne avevano fatto una questione pratica, da affrontare con ogni mezzo, compreso quello della scordatura - l’accordare il violino in una maniera che renda possibili sovrapposizioni di suoni altrimenti ineseguibili -, Bach sceglie invece di occuparsi della mente dell’ascoltatore, cui dà ad intendere, grazie a un sortilegio della scrittura, una polifonia a 2, 3, perfino 4 voci, che, più che essere reale, ha la capacità di formarsi nella mente dell’ascoltatore.
Ognuno dei Sei Solo - è il titolo originale delle Sonate e Partite - ha una sua particolarità. Questa Partita ha quella di far seguire ad ogni danza un Double, una ripetizione variata. Così, l’esecuzione consta di otto movimenti, i primi quattro disposti tra loro in un rapporto tale da far avvertire all’ascoltatore un logico, proporzionato e inesorabile aumento della velocità, quasi la sensazione di una caduta verso il cuore espressivo costituito dalla Sarabanda. L’effetto di quest’ultima, poi, è protratto da Schumann col replicarla al pianoforte nel Double, così che la si ascolti una seconda volta riflessa nella sua variazione.
È caratteristica della Suite d’essere una successione di danze tutte nella stessa tonalità. Se di norma è caratteristica che non si nota, in questa Partita è invece centrale e ha un valore tangibile, che all’ascolto, forse per la reiterazione sistematica dei Double che doppiano ogni movimento, ha il suo peso evidente. A contare non è più la semplice successione delle danze ma quella costruzione organica e fortemente correlata che sono chiamate a formare, che trova nella fissità della tonalità il suo criterio unificante e il suo punto di equilibrio.
La conoscenza di Bach segnò una svolta nella produzione di Mozart. L’occasione fu offerta dalla frequentazione a partire dal 1782 “ogni domenica, alle dodici in punto” del salotto musicale del Barone Gottfried van Swieten, un diplomatico austriaco mecenate di musicisti e musicista egli stesso, che aveva collezionato le opere di Bach e di Händel durante la sua missione come ambasciatore alla corte di Federico II a Berlino.
Nel 1786 van Swieten diede vita alla Gesellschaft der associierten Cavaliers, un sodalizio di 25 membri dell’aristocrazia viennese - tra i quali i principi Esterházy, Lobkowitz, Kinsky, Lichnowsky e i conti Erdödy e Appony, tutti nomi che rimandano a vicende e relazioni musicali la cui memoria è giunta fino a noi -, dedito all’esecuzione delle opere di Bach e Händel nei rispettivi palazzi. Nel 1786, in un momento in cui la sua carriera declinava, Mozart si prese l’impegno di dirigere la Gesellschaft.
L’Adagio in si minore KV 540 fu scritto nel 1788, dunque nel pieno della scoperta bachiana da parte di Mozart, ma, come si è detto, non è questa la chiave della sua inclusione nel nostro ciclo. Del resto, l’Adagio non è musica che mimi o riprenda lo stile di Bach. Il contrappunto, la radice logica del sistema di scrittura bachiano e dell’epoca barocca, era stato presente fin da subito nella scrittura mozartiana, e Glenn Gould, che incise tutte le Sonate per pianoforte di Mozart nonostante ne dicesse peste e corna, notava nelle composizioni giovanili “una purezza contrappuntistica e una ricercatezza di registri che non sono più state raggiunte nelle opere successive”.
La chiave della nostra scelta è ancora una volta nella tonalità. Questo Adagio mostra una faccia pensosa del si minore, pervasa non dal senso del canto ma da quello della parola discorsiva, pronunciata tra sé e sé. La semplicissima formula d’apertura - più bella, più ricca di sottintesi, quasi più affascinante di quella, che ha fatto storia, del Tristano -, stabilisce in un solo tratto un intero mondo di relazioni, e torna più e più volte, in una circolarità ipnotica che fa perdere la cognizione di dove si è, fino alla coda, in cui riluce un sorriso di una dolcezza così dolorosa, di una fiducia così disperata, che si sarebbe tentati di dire schubertiana.
La musica dell’estone Arvo Pärt è conosciuta per il suo sapore arcaico e per la sua atmosfera quasi onirica di sospensione del tempo.
Il sapore arcaico sarebbe già motivo di inclusione nel nostro ciclo, per analogia con l’impressione che la musica di Bach poteva suscitare nel momento in cui iniziava ad essere conosciuta, durante l’Ottocento: sia per le circostanze della sua diffusione, sia per la fisionomia che le è propria, la musica di Bach non è ai nostri occhi immediatamente riconducibile ad un luogo preciso della storia, ma ne pare per così dire sospesa. Bach ha però anche un ruolo non solo suggestivo nella formazione del linguaggio così personale di Pärt, che prende le mosse a partire dalla dodecafonia.
Già Šostakovič aveva scritto il suo Clavicembalo coi 24 Preludi e Fughe per pianoforte op.87, un’opera concepita nel più puro stile bachiano ma il cui contenuto è il canto popolare russo. Poi, la conferenza-concerto che aveva chiuso la memorabile tournée di Glenn Gould del 1957 aveva offerto Bach a quella generazione di musicisti sovietici come garante per il suo viaggio nella dodecafonia, col mostrarne il radicamento nella tradizione polifonica rinascimentale e la sua continuità di sviluppo fino alla Scuola di Vienna.
Presto, però, Pärt, si rese conto che con i mezzi della dodecafonia non avrebbe potuto proseguire e, alla ricerca di una nuova spontaneità, cercò di imparare a condurre una sola linea, “una monodia assoluta, una nuda voce da cui tutto ha origine”, cantando e suonando il gregoriano da un Liber usualis proveniente da una piccola chiesa di Tallin, e poi leggendo salmi e a provando a scrivere immediatamente dopo, senza alcun controllo.
La chiave di volta della sua evoluzione è stata nella scoperta della necessità di una seconda linea e nella maniera di correlarla al canto: la creazione di uno stile personale chiamato tintinnabuli, dal latino “campanelli”, in cui la seconda voce è costituita da tre suoni che sottolineano continuamente una sola funzione, quella della tonica.
Così, non è il si minore, ma anche Fratres è sorretto da un’idea fissa: la ripetizione ipnotica di strofe illuminate dalla fissità del suono tenuto di la al basso del pianoforte, che risuona immobile fino alla fine del pezzo.
Anche la Sonata per violino e cembalo che chiude il programma è in si minore, un si minore intriso di dolcezza, ben diverso da quello intenso e drammatico dell’Adagio di Mozart e anche da quello ossessivamente reiterato eppure sfuggente e a suo modo inavvertibile della Partita.
Le Sonate per violino e cembalo obbligato furono raccolte a Cöthen, come le Sonate e Partite per violino solo. Cosa vuol dire cembalo obbligato? Vuol dire che la sua parte è scritta nota per nota, e non ne è segnato solo lo scheletro - il basso, assieme a numeri convenzionali che indicano l’armonia - da realizzare al momento dell’esecuzione, com’è sempre nelle Sonate per strumento melodico e basso continuo. Qui, semmai, le voci che cantano sono almeno due, come in una Sonata a tre: il violino e la mano destra del cembalista - tant’è vero che in uno dei manoscritti che ci sono pervenuti il copista indica queste Sonate come “Sechs Trios für Clavier und die Violine” -, e la funzione di sostegno armonico è delegata alla sola mano sinistra, con una ricchezza di mezzi in gioco e una sottigliezza nel loro uso che supera di gran lunga questa descrizione schematica, e fa compiere a queste Sonate un balzo verso un’idea di parità tra gli strumenti che è propria della musica da camera che verrà in un’epoca molto successiva.
Forse il fascino della fissità, anche di un’idea, è nella sua ambiguità: com’è nella scultura, che, immobile, si offre all’osservazione, mentre lo sguardo che le si rivolge può farlo da infiniti punti di vista, così che il loro rapporto è addirittura più dinamico di quello che può intercorrere, ad esempio, con l’immagine animata ma solo bidimensionale del cinema.
Fulvio Luciani
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