Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, Largo Gustav Mahler

domenica 16 novembre 2014, ore 11.30


Romantico Bach 3

Johann Sebastian Bach: Sonata in la minore per violino solo BWV 1003, versione di Robert Schumann con pianoforte

Johannes Brahms: Sonata in fa minore per violino e pianoforte op.120.1, versione originale per violino della prima Sonata per clarinetto

Johann Sebastian Bach: Sonata in la maggiore per violino e cembalo BWV 1015



Fulvio Luciani, violino

Massimiliano Motterle, pianoforte



note di lavoro: raccontare una storia


Anni fa un amico, illustre musicista, mi diceva, con l’esagerazione che gli è solita, che se avesse potuto ricominciare da capo si sarebbe dedicato alla pittura e non più alla musica.

Nell’osservare un quadro diceva di avere la sensazione d’esser dinanzi ad una finestra affacciata su un altro mondo, e non valeva la mia obiezione che altrettanto accade con la musica o la letteratura, forse perché un quadro offre l’occasione di un punto di vista, che al mio amico interessava, mentre musica e letteratura richiedono un’immersione.

Ogni tanto qualcuno mi domanda se ho mai composto, e si stupisce quando gli dico di no, che non saprei farlo, scettico della mia risposta, come non fosse credibile che non mi sia mai venuto il prurito di provare a dire una parola mia, e il suonare musica d’altri sia in un certo senso un ripiego.

Mi torna allora alla memoria un’esperienza adolescenziale, i cui contorni possono apparire al giorno d’oggi talmente sorprendenti da far sembrare il mondo di allora davvero un altro mondo.


Quando ero ragazzo i registratori non c’erano. Già dire “i registratori” è quasi parlare un’altra lingua, oggi che con un telefonino si fa questo ed altro. I registratori, lo dico per i più giovani, erano apparecchi che servivano per registrare i suoni. Non che non esistessero, ne avevano le stazioni radiofoniche e le case discografiche, ma non ce n’erano che fossero a disposizione di tutti.

Il primo che abbe una larga diffusione si chiamava Geloso - magnetofono Geloso, per la precisione -: era della dimensione di una scatola da scarpe e registrava su nastro. Sembrava una meraviglia, e non proprio alla portata di tutti. Del resto, era l’epoca dei mangiadischi, dei filmini super 8 rigorosamente muti, delle cabine telefoniche intrise del fumo di decenni, delle prime Polaroid, macchine fotografiche dal cui addome veniva espulso un foglietto su cui pian piano compariva la foto appena scattata, tutte cose che conservavano una certa dose di meraviglia.

Il primo registratore lo ebbi già in epoca di compact cassette, in cui il nastro era montato in una specie di astuccio che rendeva tutto molto più pratico, ma non ricordo di averlo mai usato per registrarmi. Lo usavo invece per registrare dalla radio, mettendo il registratore, che adesso aveva la dimensione di un volume di enciclopedia, davanti alla radio accesa. La prima cosa che registrai fu un quartetto d’archi, nella calma piatta di un sabato pomeriggio. Ero con mio padre, dovevamo stare in silenzio, ma lui non resistette a non accendersi una sigaretta e anche il rumore dell’accendino rimase registrato.


La prima volta che mi ascoltai fu dunque piuttosto tardi. Successe che un amico appassionato, che si era procurato tutta l’attrezzatura, venne a registrare un concertino da studenti. Ricordo ancora lo stupore: nella mia esecuzione c’era molto di cui non sapevo nulla e che mi colpiva più di quel che sapevo di aver messo con fatica e dopo lunga preparazione. Era una specie di melanconia, che non mi sarei aspettato dal ragazzone sano, fortunato e ottimista che ero.

Così, nella mia ingenuità, cominciai ad osservare, e mi sembrò che la ragione decisiva del fascino del mio celebre maestro fosse non tanto nel suo leggendario rigore ma nella fragilità umanissima che il suo suono lasciava trasparire e che certo non era frutto di uno studio o di un’intenzione cosciente, e cominciai a chiedermi se la bellezza di un libro o di un quadro dipendano dalla bontà del progetto che ne ha guidato la realizzazione o non piuttosto da altro che sia scappato inconsapevolmente dentro a quel progetto.

Il caso dello scrittore mi intrigava, perché pensavo che ciò che lo distingue dalle quelle persone cui pure si dà ascolto con stupore e interesse sia la capacità di raccontare una storia non sua, e immaginavo quanto affascinante potesse essere il mettere in gioco dei personaggi per poi seguirne la vicenda, quasi la si stesse scoprendo nel momento in cui la si sta creando. Provai anche a chiedermi se l’autore possiede e capisce la propria storia più e meglio del suo lettore, e feci lo stesso con la musica le prime volte che potei collaborare con chi le aveva scritte.


Se è vero che la musica narra una vicenda o descrive un’emozione, sarebbe logico aspettarsi che lo faccia coi mezzi più adatti. La polifonia, il linguaggio che Bach usa, è invece un gioco di sovrapposizioni che ha qualcosa del gioco di abilità. Nonostante questo, in Bach, riconosciamo comunque un racconto, che corre sotto a quei giochi combinatori e numerologici come non avesse nulla a che fare con essi, e che appare plasmato e proporzionato con incantevole naturalezza sul suo contenuto.

È in questo, nell’idea di una musica fortemente progettata che all’ascolto suona invece come fosse generata dall’emozione che la pervade, la contiguità ideale tra Bach e Brahms.


Se forma e contenuto coincidono, perché l’uno è nell’altra indissolubilmente, nel caso della musica la forma che vediamo sulla carta non spiega tutto, e viene da pensare che sia in gioco molto di più. Il mio è certamente il punto di vista corporativo di chi suona, ma credo che l’unica analisi  possibile della musica sia nell’esecuzione dal vivo. Non c’è stata analisi capace di rivelare quanto intrisa di umanità sia la Große Fuge beethoveniana prima che qualche quartettista non l’abbia colta sulla propria pelle, forse nemmeno rendendosene del tutto conto, e non l’abbia restituita con la sua esecuzione, e non c’è lettura del testo che possa dar conto di quello straniamento dal tempo che si verifica in certa musica di Schubert.

La straordinaria qualità della scrittura non è la spiegazione della bellezza né della musica di Bach né di quella di Brahms. Se lo fosse, a replicare quei procedimenti si dovrebbe ottenere qualcosa. Ma non è così.


Fulvio Luciani

6 concerti dedicati a bach

romantico bach 3

foto mario bertodo